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La Germania felix e il welfare di Luxottica: perchè oggi “piccolo non è più bello”

di Franco Mosconi* – Le ragioni del nuovo miracolo tedesco non sono solo economiche ma nascono dai pregi del capitalismo renano – L’Italia invece è frenata da lobbies e corporazioni ma anche – salvo rare eccezioni -dai limiti dimensionali e di governance delle imprese e dalle riforme mancate – Innovazione e internazionalizzazione ne fanno le spese

La Germania felix e il welfare di Luxottica: perchè oggi “piccolo non è più bello”

Luxottica compie in questo 2011 cinquant’anni anni di vita, fatturando oltre 6 miliardi di euro: lo ricordava, una decina di giorni fa, il Ceo Andrea Guerra in una sua lezione all’Università di Bologna.

Le sue parole sulle decisioni strategiche che cammin facendo, da quel lontano 1961, ha preso il fondatore Leonardo Del Vecchio mi son tornate alle mente ascoltando le ultime Considerazioni finali di Mario Draghi laddove egli ha parlato di «Imprese e finanza».

Le parole del Governatore sono ampiamente note, e hanno messo sì in rilievo «importanti segni di vitalità di molte imprese» ma anche la frammentazione del nostro sistema produttivo: «Le imprese italiane – ha detto – sono in media del 40 per cento più piccole di quelle dell’area dell’euro. Fra le prime 50 imprese europee per fatturato sono comprese 15 tedesche, 11 francesi, solo 4 italiane. La struttura produttiva del nostro paese appare statica: i passaggi da una classe dimensionale a quella superiore sono rari». E ancora: «Una diffusa proprietà familiare delle imprese non è caratteristica solo italiana; lo è invece il fatto che anche la gestione rimanga nel chiuso della famiglia proprietaria».

Possiamo ora domandarci: perché di Luxottica ne sono nate così poche? Certo, la multinazionale di Agordo è soltanto una delle tante aziende di successo, nate piccole – quando non piccolissime – durante gli anni del boom economico e poi via via cresciute di dimensione lungo il corso di questi decenni. Ma rappresenta un esempio emblematico da tanti punti di vista.

Torniamo così alla nostra domanda che – come dimostrano tanti anni (decenni) di studi empirici e dibattiti accademici – non ha, purtroppo, una risposta unica e tranchant.

Cominciamo col dire che le Considerazioni finali di quest’anno e l’annessa Relazione annuale (si v. il capitolo 10) chiariscono al di là di ogni ragionevole dubbio perché, oggi, piccolo non è più bello.

Due sono le leve competitive fondamentali: la «capacità innovativa delle imprese»; la «diffusione e l’intensità dei processi di internazionalizzazione». Ora, la prima dipende fortemente dalla spesa in ricerca e sviluppo (in Italia «pari nel 2008 all’1,2% del Pil, ultimo posto tra i paesi della UE-15 e lontano dai valori della Francia, della Germania e dei paesi scandinavi»); la seconda dipende sempre più dalla capacità di esportare verso i nuovi mercati emergenti extra UE (Cina e India, in primis) e dagli investimenti diretti esteri: anche sotto questi profili ampia è la distanza dell’Italia da Francia e Germania.

Ma da che cosa dipende questo doppio ritardo nell’attività innovativa e nell’internazionalizzazione? La risposta di Bankitalia è inequivocabile: esso «dipende in larga misura dalla ridotta dimensione» delle imprese manifatturiere; al riguardo, ai numeri già citati nelle Considerazioni dal Governatore e forte delle indagini del Servizio studi, la Relazione aggiunge i seguenti: «Con un numero medio di addetti pari a 8 (contro gli 11 della Spagna, i 14 della Francia e i 35 della Germania) è più difficile sostenere i costi e i rischi elevati insiti nelle attività di ricerca e innovazione e nell’espansione sui mercati internazionali». Da ultimo, la Relazione ritorna sulla questione – anch’essa già evocata dal Governatore – del capitalismo familiare, per così dire, all’italiana: «I limiti della ridotta dimensione d’impresa sono amplificati se si accompagnano a una proprietà e, soprattutto, a una gestione completamente familiare. La sostanziale coincidenza tra il patrimonio aziendale e quello della famiglia proprietaria riduce la disponibilità a intraprendere progetti rischiosi…». I dati sono impressionanti: sono a «proprietà e gestione completamente familiare» ben il 59% delle imprese manifatturiere italiane, contro il 18 in Francia e il 22 in Germania (la fonte è la banca dati EFIGE che raccoglie un campione di imprese con almeno 10 addetti).

Questa struttura d’impresa è, in ultima istanza, responsabile di quella crescita della produttività del tutto insoddisfacente sperimentata dall’Italia nell’ultimo decennio; produttività del lavoro che, a sua volta, è l’autentica radice della crescita economica. Per dirla ancora con Mario Draghi: «Se la produttività ristagna, la nostra economia non può crescere».

Sin qui l’analisi, che trova ampia condivisione nella comunità scientifica così come nella business community (si pensi all’ultima Assemblea di Confindustria e ai lavori del Centro studi di viale dell’Astronomia).

In verità, anche su una possibile ricetta per uscire da questa impasse pare esservi sufficiente consenso nel paese. Pensiamo alle «reti d’impresa» che stanno formandosi, anche al di là del provvedimento legislativo del luglio 2010 che le ha formalizzate. E pensiamo soprattutto alle necessarie riforme per creare un contesto davvero favorevole alla nascita e allo sviluppo dell’attività d’impresa; qui l’elenco del Governatore è ampio ed esaustivo (giustizia civile, istruzione, concorrenza, infrastrutture, protezione sociale, lavoro delle donne, etc.).

Quel che abbiamo di fronte – provando a riepilogare – è, da un lato, un capitalismo familiare in larga misura bloccato e, dall’altro, un contesto sfavorevole al Doing Business, per citare l’assai nota indagine della Banca Mondiale. La più nota spiegazione di tutto ciò – di questa sostanziale immobilità, pur con le solite lodevoli eccezioni – è data dall’esistenza, un po’ in tutti gli ambiti della vita collettiva italiana, di lobby e corporazioni così forti da ostacolare ogni seria ipotesi di riforma, a cominciare dalle liberalizzazioni. Quante volte abbiamo assistito, e tuttora assistiamo, alla «cattura del regolatore»!

Se tutto questo è vero – e io credo sia assolutamente vero – occorre scavare sotto la superficie ancor più in profondità. Il caso ci è offerto dal «capitalismo renano» – analizzato già nel 1991 da Michel Albert e Romano Prodi su “il Mulino” – che, forse mai come oggi, è in cima ai pensieri di tutti per le straordinarie performance economico-sociali cui dà vita. Una crescita nell’intorno del 4% annuo e la leadership mondiale nell’export non sono che i più visibili dei segni del nuovo miracolo tedesco. Ma siamo sicuri che basti guardare all’economia per spiegarlo? E che non sia invece necessario andare al di là di essa per comprenderlo appieno?

Fra le tantissime analisi pubblicate in quest’ultimo anno sul redivivo «capitalismo renano» – dopo i due decenni del «pensiero unico» e delle magnifiche sorti progressive del «capitalismo anglosassone» – due, in particolare, colpiscono per la profondità d’analisi e meritano una speciale attenzione. La prima è il saggio del compianto Edmondo Berselli, L’economia giusta (Einaudi 2010); la seconda è un commento di Claudio Magris, dal titolo Solidarietà, efficienza, comunità. E modernità senza indulgenze pop, uscito sulle pagine del “Corriere della Sera” alcuni mesi fa (13 febbraio 2011). Quello che emerge da questi scritti è, dovendo sintetizzare, un modello di capitalismo plasmato dalle seguenti forze:

i. la legislazione sociale originariamente introdotta da Bismark (erano gli anni ’80 dell’Ottocento), e che si è poi evoluta in un possente Stato sociale capace di proteggere tutti i cittadini – e le loro famiglie – nel momento del bisogno;

ii. l’economia sociale di mercato, ossia – come spiega Berselli – un sistema nel quale la «dinamica economica è fondata sul mercato», ma quest’ultimo «non può regolare da solo l’insieme della vita sociale. Necessita di fattori di equilibrio esterni, ha bisogno di essere bilanciato da elementi di politica sociale determinati a priori e di cui è garante lo Stato»;

iii. l’influenza esercitata in Germania, nel costruire la versione autentica dell’economia sociale di mercato, da un lato dalla Dottrina sociale della Chiesa e dall’altro dalla Scuola di Friburgo degli ordoliberali;

iv. il riformismo teorizzato e praticato dai due grandi partiti di centrodestra (cdu) e centrosinistra (spd) sin dai primissimi decenni seguiti alla Seconda guerra mondiale; non desta meraviglia dunque che durante la seconda metà del Novecento imprenditori e sindacati abbiamo sempre cooperato all’interno delle imprese, promuovendo la partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa. E non desta neppure sorpresa che, giunti al principio del XX secolo, prima il governo Schröder poi quello della signora Merkel abbiano messo mano a una profonda riforma del mercato del lavoro, che ha creato una flessibilità «interna» alle imprese e non già «esterna» a esse (tutta scaricata sulle spalle dei giovani lavoratori precari o atipici, come invece è accaduto nel caso italiano).

I punti da (i) a (iv) sono naturalmente schematici ed esemplificativi ma nel loro insieme danno l’idea, crediamo, di un modello che non si regge esclusivamente su fattori economici, per quanto razionali essi siano. Dobbiamo andare, per l’appunto, al di là dell’economia. Scrive Magris nel citato articolo sul “Corriere”: «Il prestigio e il rilievo dell’odierna Germania derivano in buona parte da quel capitalismo renano: un capitalismo umano anzitutto, per i suoi legami con la realtà concreta, con le cose e non con l’immaterialità della finanza. Questo rapporto con la realtà e non solo con la sua finzione e rappresentazione ha inevitabilmente una carica morale, che è sempre concreta, come l’olio e il vino nelle parabole evangeliche».

Quanto distante è l’Italia da tutto ciò? Da questa (nuova) frontiera?

Per un verso è vicina: l’Italia resta la seconda manifattura d’Europa, dopo quella tedesca, e su questa base è possibile costruire ancora.

Per un altro verso è lontana, molto lontana: in Italia lo spirito di comunità, il realismo e la concretezza non sono patrimonio comune; prevalgono, invece, in una parte non piccola della classe dirigente (in economia come in politica, nell’accademia come nel giornalismo), l’individualismo e il culto dell’immagine.

Il legame fra ciò in cui crede una società (a cominciare dalle sue élite) e la crescita delle imprese e dell’economia (che è il tema sul tavolo), beninteso, non è immediato e deterministico. Così come non è facile replicare in pochi anni, o decenni, quello che, in un’altra società, è stato costruito lungo oltre un secolo, se prendiamo per buona la data di partenza con Bismark.

Eppure, la tanto acclamata – a destra come a sinistra – «lezione tedesca» dovrebbe indurre qui da noi, in Italia, qualche più profonda riflessione. Non basta predicare l’economia sociale di mercato e ammirare la proverbiale forza delle grandi imprese tedesche sui mercati di tutto il mondo per trasformare, quasi per incanto, il nostro chiuso capitalismo familiare. Servono tutte quelle riforme evocate da Mario Draghi il 31 maggio, a partire da quelle riguardanti il nodo cruciale delle imprese italiane, davvero troppo piccole. Riforme che difficilmente si faranno se non nascerà un nuovo spirito comunitario; se non prenderà forma un’idea di paese che rimetta al centro della scena l’interesse collettivo e le chance di vita e lavoro delle giovani generazioni.

Luxottica è forse la più eccellente delle italiche eccezioni. Sarà un caso: ma in quell’impresa, famosa in tutto il mondo per i suoi brand del lusso, nel momento più acuto della crisi del 2008-2009 è stato edificato uno straordinario Welfare aziendale con l’investimento nell’asilo nido; i buoni spesa per tutti i lavoratori; i fondi per l’acquisto dei libri scolastici dei loro figli e gli assegni di merito; la copertura delle spese mediche per visite specialistiche.

Già, sembra di essere in Germania.

*Economista industriale e docente dell’Università di Parma

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