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La Fca di Melfi e la sfida vinta da Marchionne: scattano in questi giorni le prime assunzioni

Le oltre mille assunzioni alla Fca di Melfi sono la vittoria di Marchionne che, a differenza di altri gruppi e malgrado l’opposizione della Fiom, non ha mai ridotto l’occupazione, ha fatto investimenti, non ha ridotto i salari, non ha delocalizzato e non ha ridotto la capacità produttiva ma ha preteso il rispetto delle regole e la regolarità produttiva

La Fca di Melfi e la sfida vinta da Marchionne: scattano in questi giorni le prime assunzioni

A Melfi, dopo circa 10 anni dalle ultime assunzioni avvenute con il lancio della Grande Punto, varcano in questi giorni i cancelli della fabbrica i primi 300 giovani degli oltre mille che, come comunicato da FCA, saranno avviati al lavoro entro il mese di marzo per assecondare la salita produttiva dei nuovi prodotti Jeep Renegade e Fiat 500X.
Una volta stabilizzati i volumi produttivi in ragione dell’ andamento della domanda e dei risultati nei mercati dove le vetture saranno vendute, a partire da quello americano, i giovani, inizialmente inseriti con contratto interinale, saranno assunti a tempo indeterminato con il “contratto a tutele crescenti” previsto dal Jobs Act.

L’ organico si attesterà sulle 6.500 unità, mai raggiunte in passato, che, con i 2000 lavoratori previsti a regime dalle 13 aziende del vicino comprensorio fornitrici just in time dello stabilimento, faranno di Melfi uno dei più grandi complessi automotive d’Europa.
Se in questi anni si è tentato di fronteggiare le esigenze della globalizzazione cercando di preservare il potenziale competitivo con la precarizzazione del lavoro, la riduzione del personale e dei trattamenti economici e normativi o con le delocalizzazioni e le esternalizzazioni, la Fiat, o per meglio dire oggi la FCA, al contrario non ha ridotto l’occupazione, ma l’ha protetta con consistenti investimenti (oltre 5 miliardi per gli stabilimenti di Pomigliano, Grugliasco, Melfi, Mirafiori e Cassino); non ha diminuito le retribuzioni, anzi il Contratto Fiat prevede livelli salariali superiori a quelli del CCNL metalmeccanici; non ha delocalizzato all’estero, ma ha riportato dalla Polonia la produzione della Panda, non ha esternalizzato parte del processo produttivo anzi si è ripresa le attività ausiliarie prima appaltate a terzi, non ha infine tagliato la capacità produttiva ma l’ha incrementata con l’acquisizione degli stabilimenti della ITCA di Grugliasco, della Carrozzeria Bertone e della VMmotori di Cento.

Soprattutto ha acquisito, con l’operazione Chrysler, il mercato americano, dando la possibilità agli stabilimenti italiani di saturare i propri impianti con produzioni destinate ai mercati d’oltre oceano: è quello che sta avvenendo con la Maserati prodotta a Grugliasco o con i motori prodotti a Cento, è quello che ora tocca a Melfi con la Jeep Renegade e la 500X, è quello che avverrà domani con il SUV a Mirafiori o le Alfa Romeo a Cassino.
In sostanza, FCA non ha adottato i comportamenti tipici di chi, incalzato dalla competizione globale, ha scelto di disinvestire in Italia ma ha scommesso sul rilancio della manifattura nazionale. In cambio di un tale impegno l’azienda ha chiesto, con la sottoscrizione del Contratto Fiat, l’intensificazione, la regolarizzazione e la prevedibilità delle prestazioni lavorative, con un innalzamento della produttività del fattore lavoro, finalizzato alla saturazione dell’utilizzo degli impianti.

Oggi infatti la questione prioritaria di un player automobilistico mondiale come FCA, non è quello di abbassare i livelli salariali (il costo del lavoro è solo l’8% dei costi totali di produzione) o di allineare le condizioni di lavoro a quelli dei Paesi emergenti (ipotesi mai presa in considerazione), ma piuttosto quello di assicurarsi una regolarità produttiva tale da soddisfare il ritorno economico dei rilevantissimi investimenti.

L’enorme quantità di capitale necessaria all’industria automobilistica per competere sullo scenario mondiale rende infatti ineludibile il rispetto delle regole che garantiscono l’intensità e la continuità della produzione, in altre parole la governabilità della fabbrica.
In questo senso si spiega ad esempio, nella primavera scorsa, la dura presa di posizione dell’azienda, con l’ipotesi anche di bloccare l’investimento, nei confronti della Fiom dello stabilimento Maserati di Grugliasco che, in violazione del contratto di lavoro, si era resa responsabile di alcuni episodi che avevano causato perdite produttive, proprio nel momento più delicato del lancio dei nuovi modelli.
Qui sta dunque la chiave per comprendere la linea ispiratrice della “sfida” che l’azienda ha lanciato al sistema Paese nella definizione di nuove regole per la contrattazione e le rappresentanze collettive.

La necessità di avere maggiori flessibilità nell’utilizzo impianti per poter competere in modo efficace sui mercati e, soprattutto, avere certezze sull’applicabilità e sulla esigibilità delle intese sottoscritte sono stati i motivi che hanno spinto la Fiat, a partire dalla vicenda di Pomigliano del 2010, a ricercare intese sindacali compatibili con uno scenario di mercato e produttivo che si stava rapidamente deteriorando con l’aggravarsi della crisi economica. 
Da tempo la Fiat manifestava la necessità che gli accordi sindacali fossero rispettati e non sistematicamente ignorati o ricontrattati quando le esigenze aziendali ne richiedevano l’applicazione: ottenere il rispetto delle intese sindacali era stato per decenni la principale criticità che si poteva riscontrare in un sistema di rapporti in cui tutto poteva essere rinegoziato, anche in presenza di regole contrattuali ben definite, con comportamenti che nei fatti disattendevano gli accordi sottoscritti.
La sfida alle parti sociali avviene quando la Fiat, ormai in fase di integrazione con la americana Chrysler, scommette sulla capacità di competitività del sistema industria Italia, chiedendo in cambio di avere maggiore flessibilità nell’utilizzo impianti e certezza ed esigibilità dei “patti” sottoscritti con il sindacato. Per fare ciò occorreva che l’ azienda si liberasse da quei “lacci e lacciuoli” di un sistema contrattualistico confederale, che in una economia di mercato costituivano inutili freni e che impedivano di operare in un quadro di certezze e di condizioni simili a quelle che esistono in tutto il resto del mondo.

Da qui la decisione della Fiat di applicare ai propri lavoratori, con una ridefinizione delle normative sul lavoro coerenti con le nuove e più pressanti condizioni di mercato, uno specifico contratto collettivo nazionale di lavoro, sottoscritto con tutti i sindacati nazionali di categoria, ad esclusione della Fiom-Cgil, in sostituzione degli accordi confindustriali e del contratto metalmeccanico precedentemente applicati.

Contro il Contratto Fiat si è scatenata in questi anni la opposizione della Fiom, dovuta soprattutto dal fatto che non ha mai voluto, e non vuole tuttora, assumersi la responsabilità di rispettare gli impegni sottoscritti, accettando il sistema sanzionatorio previsto dal contratto nel caso della mancata osservanza delle regole pattuite. Per sostenere la sua campagna di disinformazione, la Fiom ha travisato i veri contenuti e obiettivi del nuovo contratto di lavoro, dipingendo l’ambiente lavorativo come una regressione al lavoro nelle ferriere e come un attentato ai diritti costituzionalmente garantiti le misure adottate per flessibilizzare l’utilizzo degli impianti o gli orari di lavoro, o le misure per contenere l’assenteismo abusivo o la micro-conflittualità improvvisa e non proclamata.
Una campagna, ausiliata da parte dei mass-media e da qualche comico televisivo, che ha trovato spazio tra le forze che remano contro la modernità, contro il futuro, contro gli interessi collettivi.
In questi anni i leader della Fiom, ma anche della Cgil, hanno ripetuto le solite vecchie filastrocche populiste, approssimative, generiche contro la Fiat e la capacità innovativa dei suoi piani industriali, per difendere più la visibilità del loro ruolo che pensare a tutelare i lavoratori.

Poi, due settimane fa da Melfi è arrivato il segnale della svolta possibile per il nostro Paese.
Il consenso che l’azienda ha raccolto tra l’opinione pubblica e tra i lavoratori sulla “sfida” vinta a Melfi, anche grazie ai sindacati riformisti che con essa l’hanno abbracciata, è infatti l’esempio che in Italia esiste una larga parte della società che dice no agli antagonisti per professione, che ha voglia di rimboccarsi le maniche e risolvere i problemi, e che, soprattutto, è disposta ad impegnarsi per trovare le soluzioni.

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