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La digitalizzazione e il suo lato oscuro: winner takes it all 

Secondo i 100 European digital champions del Financial Times l’Europa primeggia nel settore auto, ma è debole nelle infrastrutture digitali, cybersecurity, il settore elettronico e i servizi.  E la preponderanza di piccole aziende e la frammentazione del mercato finanziario rendono più difficile disseminare la digitalizzazione nel Vecchio continente

La digitalizzazione e il suo lato oscuro: winner takes it all 

Qualche azienda italiana è entrata nei 100 European digital champions del Financial Times. Ma la crescita della produttività totale nel nostro Paese ci pone assai lontani dalla frontiera della produttività: siamo l’ultimo dei grandi paesi europei e tutta l’Europa è più debole degli Stati Uniti e anche della Cina. Nella lista delle 2500 imprese alla frontiera per R&S, l’Europa primeggia nel settore auto, ma è debole nelle infrastrutture digitali, cybersecurity, il settore elettronico e i servizi.  

Pur sapendo che i motori dell’economia digitale sono l’innovazione e il capitale umano, in Europa l’investimento in R&S e in intangibles, cioè dati, softwares, intellectual property rights e human capital, è nettamente inferiore agli USA.  Molte imprese non innovano affatto e solo l’8% può essere definito “leading innovator” in confronto al 16% negli Stati Uniti. L’Europa si è ripresa dalla crisi finanziaria e quella dei debiti sovrani, ma alla crescita del PIL reale e dell’occupazione non ha corrisposto una crescita adeguata degli investimenti.  In particolare, l’investimento europeo in R&S è al 2% del PIL come in Cina, ma quasi un punto percentuale in meno degli States e 12 pp in meno per intangibles. E’ la forbice che si sta allargando nella digitalizzazione e automazione che mette a rischio la competitività europea e anche la pace sociale, come mostra la Francia dove il 90% dei nuovi posti di lavoro nel periodo 2010-16 sono in settori a bassa produttività e bassi salari. 

La preponderanza di piccole aziende e la frammentazione del mercato finanziario rendono più difficile la disseminazione della digitalizzazione in Europa, che aumenterebbe la produttività anche nelle imprese non alla frontiera, e la prevalenza del finanziamento delle imprese con debito bancario penalizza le imprese giovani senza precedenti rapporti con le banche o garanzie reali. 

Inoltre, l’economia digitale ha polarizzato il mercato del lavoro riducendo i lavori intermedi e ha aumentato l’ineguaglianza in molti paesi avanzati. Mentre ci si concentra di solito sull’aumento di ricchezza e redditi al top e l’aumento della povertà nel decile più basso della distribuzione, si è trascurato un fenomeno che ha implicazioni politiche anche maggiori: l’immobilità in una parte crescente dei redditi delle famiglie. Una ricerca del 2016 di McKinsey Global Institute ha trovato un aumento sostanziale di questa platea: in 25 paesi avanzati tra il 65 e 70 percento delle famiglie, ovvero 540-580 milioni di persone hanno sperimentato redditi stagnanti o in discesa tra il 2005 e il 2014.

In contrasto, tra il 1993 e il 2005 meno del 2% ovvero meno di 10 milioni di persone si sono trovate in una situazione simile. Trasferimenti da parte dei governi che potevano permetterselo hanno aumentato il reddito disponibile riducendo la scioccante percentuale di cui sopra. Ma sommando i trend demografici alla riduzione dei lavori intermedi, lo studio Mckinsey prevede che dal 30 al 40% dei redditi possano non aumentare nella prossima decade, percentuale che raddoppierebbe con tassi di crescita bassi, simili a quelli sperimentati dopo la crisi. 

A parte l’effetto sull’aumento delle spese pubbliche per i sussidi, la survey McKinsey trova effetti gravi sulla coesione sociale e politico-istituzionale: un terzo degli intervistati riteneva che lo stallo dei redditi si sarebbe esteso ai loro figli ed esprimevano opinioni negative sul commercio internazionale e l’immigrazione. Una crescita anemica ridurrebbe ancor più la mobilità sociale verso l’alto, come quella descritta sopra, che è l’aspirazione universale dei genitori a una vita migliore dei loro figli. Senza l’aumento della produttività la crescita ristagna e la coesione sociale è a rischio per la competizione tra i gruppi per dividersi una torta che non aumenta. 

La necessità e l’urgenza della digitalizzazione deve tener conto dei suoi rischi. Late comers come l’Italia possono evitare gli errori degli altri paesi e incentivare il digitale nel quadro di regolamentazione e tassazione adeguate. Il capitale intangibile si stima rappresenti il 90% del valore totale delle maggiori 4 compagnie digitali e generano rendite dal momento che i prodotti basati sulla proprietà intellettuale hanno costi marginali uguali a zero. In queste condizioni, l’apertura dei mercati aumenta la concentrazione più che la concorrenza e anche gli investimenti esteri hanno effetti opposti nell’economia digitale e non.

C’è una caratteristica dell’economia digitale che dobbiamo tenere ben presente perché determina tanto i suoi benefici che il suo lato oscuro. E’ sintetizzata da un’espressione che è divenuta anche una canzone di successo: Winner takes it all. In un prodotto digitale ci possono essere migliaia di brevetti a causa degli standards incorporati che permettono al prodotto d’interagire con altri. Chi ha un brevetto non può goderne la rendita monopolistica come una volta: deve continuamente allargare le reti per raccogliere tutte le iniziative che possono potenziare o rendere obsoleta la sua attività.  

La riduzione dei nuovi entranti in Europa soprattutto, ma anche negli Stati Uniti sembra confermare il crescente potere di mercato delle imprese esistenti. Secondo il rapporto sugli investimenti della BEI1, il 90% della R&S mondiale è fatta da 2500 imprese, il 70% da 250 imprese: mentre la Cina sta crescendo in questo gruppo, l’Europa sta perdendo posizioni soprattutto tra i nuovi entranti, come si vede dal grafico seguente. Solo nel manifatturiero le tecnologie digitali sono state adottate dalla stessa percentuale (60%) di imprese europee e statunitensi, mentre nei servizi le prime si digitalizzano a circa il 70% contro l’80% negli SU. Non solo l’innovazione, ma anche l’adozione di tecniche digitali già disponibili è associata a migliori performances produttive e al successivo passaggio all’innovazione da parte delle imprese.  

Il paese che non tiene il ritmo dell’innovazione o almeno dell’adozione delle innovazioni vede la forbice della sua produttività allargarsi rispetto alle imprese alla frontiera. Gli ostacoli alla produttività che caratterizzano l’Italia da un quarto di secolo diventano esiziali: l’inefficienza della giustizia favorisce le imprese consolidate rispetto alle start-up; le farraginose procedure d’insolvenza rallentano l’uscita delle imprese meno produttive; il supporto reciproco tra imprese e politica, soprattutto a livello locale, impedisce il fisiologico ricambio delle imprese meno produttive con quelle più produttive. Ora che le cause finanziarie della sopravvivenza delle imprese zombie stanno venendo meno, occorre superare questi ostacoli per permettere alle nostre start-up di correre e crescere. Togliendo gli incentivi al nanismo e all’evasione fiscale. Altrimenti a rimetterci saranno, come già sono, i lavoratori che si trovano senza alternativa alle imprese poco produttive con bassi salari e nessun futuro.

Ma il ruolo di Stati, Federazioni e istituzioni multilaterali non si limita alla regolamentazione, anzi il ruolo più importante oggi è garantire sicurezza e futuro al “capitale umano” per vincere la guerra dell’economia digitale. Un ostacolo allo sviluppo del capitale umano è che l’occupazione è aumentata nei settori a più bassa produttività.  Negli Stati Uniti tutti e tre i settori in cui è aumentata l’occupazione sono a bassa produttività. Quindi a bassi salari. Anche in Germania e Gran Bretagna i 2/3 dei nuovi lavori nel periodo 2010-16 sono in settori con salari inferiori alla media e in Francia il 90%. Ciò che contribuisce a spiegare il fenomeno dei gilet gialli.

Il rapporto annuale della BEI sugli investimenti riporta che quasi l’80% delle imprese europee dichiarano di dover limitare l’investimento nel digitale a causa della mancanza di professionalità appropriate. Poiché ci siamo occupati 2 dei limiti alla produttività posti da management inadeguato, vediamo qui l’altro lato del capitale umano necessario per l’economia digitale, ovvero il lavoro impiegato. Le imprese che formano e aggiornano il personale – pari al 73% in Europa – sono in media più produttive, anche se il 20% ritiene la formazione data in azienda insufficiente.  

Come nel caso dell’innovazione, la piccola taglia delle imprese e i vincoli finanziari associati limitano la formazione. Le imprese che adottano tecnologie digitali avanzate riportano unfilled vacancies più spesso delle altre e il 60% delle imprese si aspettano che la digitalizzazione aumenti la domanda per professionalità più elevate. 

E’ la maggiore istruzione e formazione tecnica che risponde ai bisogni sia delle imprese più produttive che alla domanda dei giovani di partecipare attivamente allo sviluppo sociale.  Anche in questo senso una maggiore offerta di formazione contribuirebbe alla coesione sociale, in particolare in paesi come l’Italia, che ha ancora una inaccettabilmente alta disoccupazione giovanile che oggi viene convogliata nell’assistenzialismo senza sbocco.  

Malgrado il rallentamento della produttività nell’UE a partire dalla crisi finanziaria e l’importanza della mobilità del lavoro nel mercato unico che garantisce la condivisione delle professionalità acquisite, solo l’1% della spesa per istruzione in Europa è finanziata a livello europeo. Si potrebbe costruire un nuovo programma basato sull’esperienza della Garanzia Giovani e dovrebbe esserci unanimità nel destinare una parte crescente del budget europeo a quest’area, anche se i giovani disoccupati o sotto-occupati non sono una lobby organizzata a Bruxelles. 

Siamo ancora in tempo per riallocare in questa direzione fondi del bilancio pluriennale europeo, ma non solo: data l’inefficienza di molte amministrazioni locali in Italia, iniziative non solo finanziate, ma direttamente gestite a livello europeo, come quelle di sostegno all’investimento, dovrebbero estendersi alla formazione e all’Erasmus professionale. Queste iniziative devono avere obiettivi definiti per ogni paese, con risultati monitorati continuamente per permettere gli aggiustamenti necessari, come dovremmo aver imparato dai progetti digitali. 

Se il capitale umano, come gli altri intangibles, è più produttivo degli investimenti fisici nell’economia digitale, sarebbe ora di trasportare quest’affermazione nelle misure di politica dell’educazione a partire dalle elementari e nella formazione continua in azienda e fuori, al posto dei sussidi di disoccupazione e per allargare la partecipazione delle donne e dei lavoratori anziani al mercato del lavoro.    

Nelle parole del premio Nobel per l’economia 2018, Paul Romer: ideas become sources of broad-based productivity growth, which let us do more with the same or fewer resources. Knowledge, then, is a very special resource, but it has in common with other resources the fact that you can invest in it, and that your investment brings a return of more knowledge.

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