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La Bce si smarca dalla Fed sui tassi e dà l’altolà alle agenzie di rating schierandosi con Lisbona

di Giovanni Ferri* – Ieri la Banca centrale europea non ha solo alzato una barriera contro le aspettative inflazionistiche. Ma ha anche lanciato un segnale forte in difesa dei membri periferici dell’Unione. Ora tocca a quelli più influenti – Francia e soprattutto Germania – fare il resto. Basta alla prociclicità dei rating

La Bce si smarca dalla Fed sui tassi e dà l’altolà alle agenzie di rating schierandosi con Lisbona

Il 7 luglio, il Consiglio della Banca Centrale Europea ha preso due decisioni importanti, e non una sola. Quella più attesa – e che più rientra nei compiti usuali della Bce – è l’aumento di un quarto di punto percentuale nel tasso di interesse chiave, su cui basa il rifinanziamento alle banche. La seconda sospende l’applicazione della soglia del rating di esclusione dall’eligibilità dei titoli pubblici portoghesi a garanzia di operazioni di rifinanziamento da parte della Bce. Vediamole in ordine.

 L’aumento del tasso di riferimento, già atteso dai mercati, si spiega con i timori di aumento non tanto dell’inflazione in sé, nei prossimi mesi, quanto del radicarsi di aspettative che l’inflazione sia più alta in futuro. Se ciò avvenisse, si teme, diverrebbe più difficile e costoso spegnere i focolai inflazionistici, una volta innervati nella catena distributiva e nella formazione dei salari.
Con questa azione la Bce si smarca ulteriormente dalla Fed, il cui Federal Open Market Committee – l’organo omologo al Consiglio della Bce – nell’ultima riunione del 22 giugno scorso è parso ancora titubante ad attuare una vera e propria exit strategy dalle politiche ultra-espansive del quantitative easing. Così, nonostante l’inflazione USA sia al 3,6%, contro il 2,6% dell’Eurozona, prima di stringere, la Fed vuole vedere un aumento effettivo delle aspettative di inflazione. Al contrario, la Bce vuole prevenirlo.
Cresce il sospetto che gli Usa stiano attuando politiche volte a mantenere a lungo tassi di interesse reali negativi, per agevolare il proprio aggiustamento di rientro da un indebitamento elevato sia pubblico che privato. Senz’altro, non ne sono molto contenti i Paesi – specie la Cina – in surplus strutturale con gli Usa, per il rischio di essere ripagati con dollari svalutati. E, non a caso, quasi a testimoniare aspettative di maggiore stabilità dell’euro, pare che i capitali cinesi siano interessati alle privatizzazioni imposte ai Paesi europei in crisi di debito pubblico e/o a investire nei relativi titoli di stato.

La seconda decisione non riguarda il controllo dell’inflazione – per statuto, unico mandato della Bce – ma può avere ricadute persino più importanti per la stabilità finanziaria e l’irrobustimento istituzionale europei. Si era già argomentato – Marcello de Cecco prima di me, sempre su FISTonline– che in situazioni in cui i sistemi stanno avvitandosi su se stessi conviene fare temporaneamente a meno dei rating. E oggi, nel question time, Trichet è stato assai esplicito sottolineando che le agenzie di rating pongono due questioni. Da un lato, vi è un problema da affrontare a tempo debito: la struttura fortemente oligopolistica dell’industria (i big players sono S&P’s, Moody’s e Fitch) non è desiderabile, al fine di evitare che pochi attori – magari con istituzioni finanziarie in qualità di azionisti – abbiano un’influenza dominante sui mercati. Dall’altro, “è chiaro che vi è un elemento prociclico intrinseco al comportamento delle agenzie di rating” (1).
E a questo secondo problema la Bce ha risposto subito sospendendo, anche per i titoli pubblici del Portogallo (appena declassati da Moody’s a Ba2, cioè “titoli spazzatura”), l’applicazione della regola che le prescriveva di non accettare a garanzia delle proprie operazioni di rifinanziamento titoli con rating inferiore alla soglia investment grade.
Questa decisione della Bce è molto importante, però deve essere seguita da scelte chiare di sostegno da parte dei governi, specie la Francia e la Germania, che indubbiamente pesano più degli altri nell’architettura europea.

Come si è già avuto modo di dire, l’Eurozona nel suo complesso non soffre di squilibri strutturali nei conti con l’estero, ma se i governi dei Paesi – specie la Germania – che con il loro surplus compensano i deficit verso l’estero di altri membri dell’area non mostreranno la convinzione necessaria a difendere i Paesi deboli, sarà un gioco da ragazzi per il lupo (la speculazione) carpire gli agnelli (i Paesi deboli) uno a uno.
Con la sua decisione di sospendere l’uso dei rating nei confronti del Portogallo, la BCE ha messo un mattone importante. C’è solo da augurarsi che, tutti assieme, gli architetti di Eurolandia continuino a metter su muri di mattoni – seguendo il saggio porcellino Jimmy – e non costruiscano una capanna di paglia, come lo sprovveduto porcellino Timmy.

* Ordinario di Economia politica all’Università di Bari, già dirigente Banca d’Italia e Banca Mondiale

(1) Uno dei primi riferimenti al problema dei rating prociclici è: G. Ferri, L. Liu e J.E. Stiglitz (1999), “The Procyclical Role of Rating Agencies: Evidence from the East Asian Crisis”, Economic Notes.

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