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Keynes, mercato sì ma corretto da una mano pubblica senza eccessi

L’attualità della Teoria generale di Keynes, presentata ai Lincei nel Meridiano curato da La Malfa, sta nel bilanciamento tra mercato, i cui eccessi vanno corretti, e Stato, che non vuol dire spesa pubblica senza limiti, gestito da una classe politica avveduta

Keynes, mercato sì ma corretto da una mano pubblica senza eccessi

Intervento Professor Giorgio La Malfa all’Accademia Nazionale del Lincei 23 Maggio 2019

In una conferenza tenuta a Dublino nella primavera del 1933, mentre era in pieno corso la stesura della Teoria generale, Keynes osservava che: “Il decadente capitalismo, internazionale ma individualistico, nelle cui mani ci siamo trovati dopo la guerra, non è un grande successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e neppure offre i risultati promessi”. In effetti la realtà circostante giustificava ampiamente questo giudizio. Dopo la crisi del ’29, la disoccupazione in Inghilterra e negli Stati Uniti aveva superato il 25 per cento. Nel centro di Londra si potevano vedere le file di operai disoccupati in attesa di un piatto di minestra dalla carità pubblica.

Da molte parti si riteneva che si fosse di fronte alla crisi finale del capitalismo preconizzata dai marxisti. Keynes aggiungeva che alla ricerca di una risposta efficace al problema economico – cito – “un Paese dopo l’altro abbandona i presupposti generali circa le caratteristiche fondamentali della società economica”. Si riferiva al fascismo in Italia, al comunismo in Russia ed ora anche alla Germania appena caduta nelle mani di Hitler. Pochi mesi dopo quella conferenza, Keynes indirizzava un lettera aperta al nuovo presidente degli Stati Uniti, Roosevelt, in cui gli scriveva:
“Caro signor Presidente, lei si è fatto tutore di coloro i quali, in ogni Paese, cercano di guarire i mali della nostra condizione attraverso una sperimentazione razionale entro il quadro del sistema sociale esistente.
Se lei dovesse fallire, in tutto il mondo sarà gravemente pregiudicato il cambiamento su basi razionali e in campo rimarranno a scontrarsi solo l’ortodossia e la rivoluzione.

Ma se lei avrà successo, ovunque metodi nuovi e coraggiosi verranno sperimentati e potremo considerare la data della sua elezione come il primo capitolo di una nuova era per l’economia.”

Questo è il background politico della Teoria generale, che è il contributo di Keynes alla battaglia per difendere il sistema sociale esistente, facendo sì che sul piano economico esso potesse avere successo. Ma in sé la Teoria generale era ed è un libro di teoria economica, anzi di alta teoria economica. In una conferenza per la BBC del novembre 1934 Keynes precisò in modo magistrale ed ancora attuale i termini del problema. Spiegò che gli economisti erano divisi – come lo sono ancora oggi – in due grandi scuole di pensiero, separate da un abisso molto profondo. Da un lato vi sono quelli – aveva scritto – che pensano che il sistema nel quale viviamo, il capitalismo, si autoregoli “anche se con cigolii, gemiti e sussulti”. Dall’altra vi sono quelli che pensano che il sistema da solo non ce la faccia e che serva un intervento dello Stato per assicurare la piena occupazione in primo luogo, ma anche una maggiore giustizia sociale. I primi – spiegava – sono più forti perché hanno dietro di sé la scienza economica degli ultimi 100 anni. Gli eretici, fra i quali egli stesso si collocava, avevano dalla loro il buon senso, ma se non fossero riusciti a scardinare l’impianto teorico dell’ortodossia, la partita sarebbe stata persa.

La Teoria generale è l’assalto teorico di Keynes alla cittadella dell’ortodossia. Scriverà a George Bernard Shaw il 1 gennaio del 1935. “Sto scrivendo un libro sulla teoria economica che, ritengo, rivoluzionerà in larga misura il modo in cui il mondo riflette sui problemi economici… Non pretendo che lei o chiunque altro al momento ci creda, ma per parte mia ne ho l’assoluta certezza morale.” Ecco, signor Presidente, come si collega l’ispirazione politica di fondo – salvare il capitalismo e con esso la democrazia liberale – alla sofisticata analisi della Teoria generale.

Nel 1989 all’indomani della caduta del Muro di Berlino, il grande storico francese Francois Furet osservò che con la fine del comunismo per la prima volta dopo 150 anni, la democrazia politica e il sistema di mercato avevano vinto la sfida. L’osservazione era esatta, ma il sistema economico che aveva vinto la sfida non era il capitalismo del laissez-faire ottocentesco, ma il capitalismo profondamente riformato, del piano Beveridge per la sicurezza sociale, delle lotte sindacali attorno alle condizioni del lavoro, delle politiche keynesiane per la piena occupazione, del sistema di Bretton Wooods che Keynes aveva contribuito a disegnare. Questo sono stati gli ingredienti dei trenta anni gloriosi del dopoguerra che hanno permesso ai paesi dell’Occidente di vincere la sfida.

Ma in un certo senso il venir meno dell’alternativa ha consentito al vecchio capitalismo di rialzare la testa. Il mercato senza correttivi è tornato ad essere il dominus. Ed è tornata nel 2008 una crisi come quella del ’29, dalla quale l’Europa non si è ancora pienamente ripresa e l’Italia ancor meno.

Noi oggi abbiamo bisogno di un correttivo del sistema di mercato. Possiamo tollerare una disoccupazione così alta? Possiamo accettare un impoverimento delle classi medie e una concentrazione spaventosa della ricchezza? Possiamo affrontare la rivoluzione tecnologica che può provocare ulteriori problemi di concentrazione della ricchezza e di disoccupazione senza un’azione collettiva? Possiamo accettare che vengano meno gli ideali di collaborazione internazionale sui quali si è ricostruito il mondo dopo la seconda guerra mondiale? Possiamo insomma ignorare gli aspetti etici dell’economia?

Ecco perché serve ancora Keynes per porre queste domande e per stimolare la ricerca di risposte nuove ai nuovi problemi. Va sfatata l’idea che la ricetta keynesiana sia sempre e solo più spesa pubblica. Pierluigi Ciocca ha scritto più volte che Keynes era ostile alla spesa pubblica in quanto tale. Sosteneva l’obbligo del pareggio della parte corrente del bilancio, e insieme la predisposizione di programmi di investimento da utilizzare quando fosse indispensabile. E Cristina Marcuzzo ha testé citato un suo intervento del 1943 in cui diceva che bisogna assicurarsi la competenza nella gestione pubblica.

A questo proposito è di grande rilievo una lettera che Keynes scrisse a Friedrich Hayek nel ’44, dopo avere letto il suo The Road to Serfdom tutto centrato sul pericolo totalitario insito nell’intervento pubblico. Keynes gli scrive di essere totalmente d’accordo con questa preoccupazione, ma osserva che lo stesso Hayek ammette che alcuni compiti spettano comunque allo Stato. Aggiunge di ritenere che bisogna attribuirne molti di più ma – spiega – dobbiamo far sì che coloro che fanno questi interventi abbiano, nei confronti dell’intervento pubblico, la stessa diffidenza di Hayek verso gli eccessi della azione pubblica.

Ecco, questo è il punto cruciale ancora oggi, specialmente in Italia che ha bisogno di rimettersi in moto, di riprendere un cammino di crescita interrotto da troppi anni, che vede una disoccupazione giovanile ed una condizione del Mezzogiorno inaccettabili e che subisce un progressivo deterioramento del clima della convivenza sociale proprio per questo. Signor Presidente, non è questo di cui abbiamo oggi bisogno? Una presenza autorevole della mano pubblica che integri o corregga il mercato nelle sue determinazioni spontanee, affidata a una classe dirigente che conosca i pericoli di un eccesso dell’azione pubblica e che somministri questi interventi con competenza e con accortezza. Questa io credo è la saggezza nuova per una nuova era di cui parlava Keynes. E questo è il contributo che ho cercato di dare alla sua definizione.

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