Dietro le sue sale solenni e i corridoi illuminati dal riverbero della Piramide di vetro si nasconde una storia parallela fatta di audacia, mistero e ingegno criminale. Il Louvre è il museo più visitato del mondo, simbolo universale dell’arte e della cultura europea, è stato più volte teatro di furti che sembrano usciti da un romanzo: azioni pianificate nei minimi dettagli, spesso su commissione, destinate a collezioni private invisibili al pubblico.
Il colpo del secolo: la Gioconda scomparsa
Il caso più celebre risale al 21 agosto 1911, quando La Gioconda di Leonardo da Vinci scomparve dalle pareti del Louvre. A rubarla fu Vincenzo Peruggia, un imbianchino italiano convinto che il quadro dovesse “tornare in patria”. Peruggia si nascose nel museo, attese l’alba e uscì con il ritratto sotto il cappotto. Quando il furto fu scoperto, il mondo intero ne parlò: giornali, artisti e curiosi trasformarono quel gesto in leggenda. Due anni dopo, nel 1913, l’opera fu ritrovata in un albergo di Firenze. Il furto della Gioconda rese il dipinto l’immagine più famosa della storia dell’arte.
Il Louvre in guerra: arte sotto assedio
Durante la Seconda guerra mondiale, la minaccia cambiò volto. Il pericolo non veniva più da ladri isolati, ma dagli eserciti. Jacques Jaujard, direttore dei musei nazionali francesi, organizzò una colossale evacuazione: migliaia di opere — tra cui la Venere di Milo e la Nike di Samotracia — furono trasportate e nascoste in castelli, abbazie e campagne lontane da Parigi. Nonostante l’occupazione nazista, gran parte del patrimonio fu salvata, anche se numerosi reperti minori e gioielli scomparvero, finendo in mani di collezionisti e ufficiali tedeschi.
Furti silenziosi e mercato nero
Negli anni Settanta e Ottanta, in pieno boom del mercato nero dell’arte, il Louvre fu colpito da una serie di furti silenziosi: amuleti egizi, statuette, monete, piccoli reperti archeologici. Non erano colpi spettacolari, ma sottrazioni discrete, spesso opera di addetti interni o di visitatori esperti. Molti di questi oggetti furono recuperati anni dopo in aste o collezioni private, ma altri sono tuttora dispersi. L’episodio rivelò che il pericolo per i musei non è solo la tecnologia inadeguata, bensì la vulnerabilità umana.
Nel XXI secolo, con sensori, vetri antiproiettile e intelligenza artificiale, il Louvre sembrava ormai impenetrabile. Eppure, il 19 ottobre 2025, la storia si è ripetuta: un gruppo di ladri professionisti ha fatto irruzione nella Galerie d’Apollon, rubando in pochi minuti preziosi gioielli dell’epoca napoleonica. Tra questi, una corona appartenente a Eugenie de Montijo, moglie di Napoleone III, ritrovata danneggiata poco lontano dal museo. L’operazione, durata meno di sette minuti, è stata eseguita con precisione militare: ingresso da una finestra laterale, uso di un cestello elevatore di un cantiere, fuga in moto verso la Senna. Nessuna traccia dei colpevoli.
Potrebbe trattarsi di un furto su commissione: un’azione condotta da professionisti che sapevano esattamente dove colpire e cosa cercare. I gioielli rubati, infatti, sono difficilissimi da piazzare sul mercato, troppo riconoscibili per comparire in un’asta. Questo lascia pensare a un acquirente privato, un collezionista disposto a pagare cifre enormi per possedere un frammento di storia, nascosto in qualche caveau o villa inaccessibile. Il colpo alla Galleria d’Apollon non è solo una ferita al patrimonio francese, ma anche un simbolo: dimostra che neppure i luoghi più sorvegliati sono al riparo dalla brama di possesso. Dietro ogni furto d’arte, soprattutto quando riguarda tesori storici, si muove un mondo invisibile fatto di passioni ossessive, potere, segretezza e denaro. Oggi il Louvre resta un santuario dell’arte, ma anche un bersaglio per chi vede nei suoi tesori qualcosa di più del valore economico: un trofeo, un feticcio, un pezzo di eternità da tenere per sé. E così, dai corridoi silenziosi dove un tempo svanì la Gioconda, fino alla recente scomparsa dei gioielli di Napoleone, la storia del Louvre continua a raccontarci che, di fronte alla bellezza, l’uomo non sa solo contemplare: a volte tenta, invano, di possederla.