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Italia più povera ma troppi equivoci sulla povertà

La crisi globale ha ridotto il reddito pro-capite degli italiani anche se la classe media ha retto – Le persone in povertà assoluta sono aumentate ma gli indicatori sui rischi di povertà fanno discutere e si prestano a facili strumentalizzazioni – In realtà solo ridisegnando il sistema di welfare e accelerando la crescita si possono affrontare i problemi delle fasce più disagiate, senza scorciatoie demagogiche.

Italia più povera ma troppi equivoci sulla povertà

L’Italia si è impoverita. Il reddito pro capite non è ancora tornato ai livelli del 2005 e siamo su valori più bassi di quelli medi dell’area dell’euro (nel 2005 eravamo di poco superiori). La crisi non si è abbattuta su tutti nello stesso modo: un numero marginale di popolazione (un paio di punti percentuali rispetto al totale) è uscita dalla classe media che però ha tenuto, anzi leggermente aumentato, la sua quota di reddito mentre è aumentato il numero delle persone in povertà assoluta (un reddito di meno di 820 euro mensili per un single in una area metropolitana): sono poveri 4,5 milioni di persone (circa 2,5 milioni in più negli ultimi 10 anni) con l’incremento concentrato nei giovani.

Tuttavia, in un mondo che comunica prevalentemente a 140 caratteri, il rischio che la realtà venga artatamente distorta è elevato. In questa prospettiva la scelta di qualche anno fa della UE per catturare la natura multidimensionale della povertà e della esclusione sociale mi pare piuttosto discutibile. La UE ricorre a tre indicatori (rischio di povertà, grave deprivazione materiale, appartenenza ad una famiglia a bassa intensità di lavoro) ed è sufficiente rientrare in una delle tre per essere a rischio di povertà o di esclusione sociale. Anche sul significato economico di ciascuna delle tre ci sarebbe da discutere. Si consideri ad esempio l’intensità di lavoro che viene calcolata sulla base degli individui in età da lavoro in ogni famiglia e computando il numero di mesi in cui hanno lavorato sul totale dei mesi dell’anno; l’intensità si considera molto bassa quando è inferiore al 20%, indipendentemente dal livello di reddito di chi lavora! Di qui il risultato, a suo tempo rimbombato nella rete e nei media, che in Italia il 28,7% delle persone è “a rischio di povertà o di esclusione sociale”. Un numerone che si presta a facili strumentalizzazioni da parte di quel “qualunquismo economico” che si affaccia sempre più frequentemente nel dibattito. Inoltre, considerare soltanto il reddito e non anche la ricchezza nel costruire gli indicatori di povertà sembra un’approssimazione piuttosto grossolana, soprattutto in un paese come il nostro dove il patrimonio (soprattutto immobiliare) delle famiglie è sui livelli medi (se non superiori) della UE. Neanche la ricchezza ereditata riesce tuttavia a proteggere i più poveri.

Un insieme di indicatori che descrive una realtà grave e pone il problema di ridisegnare completamente il sistema di welfare, strumento essenziale per conservare la fiducia nella democrazia di vasti strati dell’elettorato. Il reddito di cittadinanza, rievocato in questi giorni, non può essere concepito al di fuori di questo ridisegno globale. La Seconda Repubblica non ha riformato il welfare adeguandolo al mondo che cambia e alle caratteristiche della Lunga Recessione ma maneggiare con cautela le evidenze disponibili, non inseguire il qualunquismo economico, abbandonare gli slogan e l’abitudine agli spot pubblicitari sono passi necessari per arrivare al voto senza illudere nuovamente l’elettorato e per mantenere, nel lungo periodo, un minimo di fiducia nel sistema istituzionale.

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