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INTERVISTE DEL WEEKEND – Onado: “La bassa redditività resta la vera croce delle banche”

INTERVISTE DEL WEEKEND – Secondo l’economista Marco Onado il modello bancario italiano, basato sul retail, resta il più sicuro ma la debolezza della crescita e i tassi bassi accentuano l’insufficiente redditività dei nostri istituti di credito che dovranno rivedere tutta la struttura dei costi e ridurre gli sportelli – Il Fondo Atlante, le fusioni tra le Popolari e la riforma delle Bcc alla prova dei fatti – “Le regole di Basilea si sono rivelate troppo complicate e la Mifid non ha finora salvato alcun risparmiatore”

INTERVISTE DEL WEEKEND – Onado: “La bassa redditività resta la vera croce delle banche”

Il problema delle banche italiane non è tanto di modello, perché il retail banking che da noi è il più diffuso resta ancora il più sicuro, ma la bassa redditività che richiede una revisione della struttura dei costi ma soprattutto una crescita economica più solida, che rimane però illusoria finché non si saprà rispondere a livello globale alla crisi economica e finanziaria che ha ormai nove anni. Chi parla è uno più lucidi studiosi del mondo bancario e finanziario italiano, Marco Onado, senior professor dell’Università Bocconi, editorialista de “Il Sole 24 Ore” e già commissario della Consob. Le sue osservazioni, che emergono dall’intervista rilasciata a FIRSTonline, sono spesso disincantate ma sempre acute.

Professor Onado, le decisioni del Governo sullo sveltimento del recupero dei crediti difficili e sui rimborsi per le obbligazioni subordinate delle quattro banche salvate a fine 2015 sono l’atto più recente di una fase di intense novità per le banche, sia di natura politica e normativa (la riforma delle Popolari, la riforma delle Bcc, l’avvio del bail-in) che di sistema (la nascita del Fondo Atlante ) e di mercato (il progetto di fusione Bpm-Banco Popolare): dopo un lungo inverno per il sistema bancario italiano si intravede la primavera?

“Io continuo a restare abbastanza preoccupato sul futuro delle banche, non tanto per il tipo di risposte che il governo Renzi ha fin qui dato, ma per la debolezza della risposta che è stata finora data a livello globale ai problemi sollevati da una crisi economica e finanziaria che ha ormai nove anni e che non può essere affrontata e risolta a livello di singoli Paesi. Del resto, l’ultimo rapporto del Fondo Monetario Internazionale sulla stabilità finanziaria parla chiaro, segnala la persistente debolezza dell’economia mondiale e dice apertamente che non siamo ancora fuori dal tunnel. Una risposta convincente ed efficace alla crisi globale non s’è ancora vista e tutto viene lasciato sulle spalle delle banche centrali che, allo stato, sono l’unica medicina disponibile ma che è illusorio immaginare che da sole possano bastare a far voltare pagina all’economia mondiale”.

Il quadro generale è quello che è, ma non si può dire che sia mancata una politica bancaria del governo Renzi . Dalla riforma delle banche popolari a quella delle Bcc, entrambe attese da decenni, dal salvataggio delle 4 banche in crisi ai rimborsi dei risparmiatori, senza dimenticare gli accordi europei sulle sofferenze che hanno in qualche facilitato la nascita di Atlante, l’elenco degli interventi è lungo: qual è il suo giudizio?

“L’elenco delle cose fatte dal Governo in campo bancario è lungo ma il mio giudizio è tiepido perché la valutazione deve riguardare la qualità degli interventi più che la loro numerosità. Sulle banche Popolari come sulle Bcc i problemi sono stati lasciati marcire per molto tempo da prima che Renzi arrivasse a Palazzo Chigi, ma pensare di risolvere questioni di governance o di mala gestio, come nel caso della Banca Etruria o della Popolare di Vicenza, con un intervento a gamba tesa che impone alle banche popolari maggiori di trasformarsi in spa mi sembra illusorio: più che un decreto serviva un’azione efficace di Banca d’Italia e Consob”.

Ammetterà che aver superato il voto capitario nelle maggiori banche popolari dopo vent’anni di insuccessi politici e parlamentari delle diverse forme di riforma proposte non è una novità di poco conto: o no?

“E’ vero ma bisogna sempre guardare all’efficacia delle leggi e, nel caso delle banche popolari, resto convinto che un ben congegnato intervento sulle deleghe assembleari sarebbe stato meglio di un improvviso decreto”.

Professor Onado, malgrado le riforme e i numerosi interventi in materia bancaria, per le banche – non solo italiane -l’età dell’oro sembra inesorabilmente finita e, in regime di bassi tassi di interesse, la redditività langue: non è venuto il momento di ripensare il modello stesso di banca, di mettere in discussione la banca universale e di superare la sportellite con una più spinta digitalizzazione?

“Non passa giorno senza che qualche grande gruppo bancario, come da ultimo ha fatto Deutsche Bank, annunci un nuovo modello di banca, ma a me pare che i problemi di fondo delle banche siano molto chiari e che la loro vera croce sia la bassa redditività che deriva dalla debolezza dell’economia e da tassi di interesse estremamente bassi o negativi che non permettono di aumentare i margini e i profitti. Aggiungo che rispetto a questi problemi di fondo le regole di Basilea, nelle loro varie versioni, hanno fatto più danni che portato benefici”.

Secondo Lei, quindi, non c’è anche un problema di inadeguatezza del modo di fare banca?

“Naturalmente bisogna distinguere tra banca e banca e tra Paese e Paese ma il retail banking, che è il modello di base delle banche italiane, mi sembra ancora quello più stabile. Questo ovviamente non significa che le banche italiane debbano restare immobili in attesa che torni una solida crescita economica e che la politica monetaria anti-deflattiva della Bce, basata sui tassi bassi, esaurisca la sua funzione. Per accrescere la redditività le banche italiane, chi più e chi meno, devono certamente rivedere la struttura dei costi: ridurre il peso degli sportelli tradizionali in funzione di una più spinta digitalizzazione è sicuramente una via da seguire, ma sapendo che non ci sono più pasti gratis e che anche operazioni del genere presentano difficoltà che non si possono ignorare”.

Oltre a riflettere sul modo di fare banca , non crede che sia il caso di aprire un fronte europeo per rivedere i criteri di regolamentazione e di vigilanza bancaria? Le banche lamentano un’ asfissiante over-regulation e un sistema di regole e di vigilanza più orientato alla stabilità che allo sviluppo

“Il problema non è tanto l’over-regulation ma verificare se l’alluvione di regole che investono le banche tocchi davvero o no i punti della crisi e questo è purtroppo tutto da dimostrare. Ben diversa fu negli anni Trenta la risposta dell’America alla crisi del ’29 e l’efficacia della riforma bancaria che fu messa in campo allora”.

A differenza di quanto avviene negli Usa, l’Europa non sembra fare distinzione nella regolamentazione tra grandi e piccole banche: in questo modo non si finisce per penalizzare, con oneri e norme insostenibili, le banche locali proprio in un’economia come quella italiana fatta sempre meno da grandi gruppi e sempre più da piccole, piccolissime e solo in parte medie imprese che hanno nella banca di territorio il loro naturale referente?

“E’ per questo che ripeto che non bastano le leggi e non bastano le fusioni per rafforzare le banche ed è per questo che, al di là delle intenzioni del legislatore, il mio giudizio sulle recenti riforme del Governo e del Parlamento resta tiepido”.

Non è ancora chiaro se il Parlamento istituirà una Commissione d’indagine o d’inchiesta sugli ultimi 15 anni del sistema bancario italiana, come sembrava a ridosso della crisi delle 4 banche di fine 2015, ma, al di là dell’accertamento delle responsabilità del passato, resta aperta la discussione sull’opportunità o meno che la difesa del risparmio passi anche attraverso un rafforzamento dei poteri e delle funzioni di Banca d’Italia e Consob: qual è il suo parere?

“Come dicevo prima, il problema non è tanto quello di nuove regole o della loro quantità ma della loro efficienza ed efficacia. L’esperienza ci dice che Basilea si è rivelata un impianto normativo troppo complicato e che la Mifid, con il suo carico di oneri e cavilli, non ha finora salvato nessun risparmiatore. E’ inutile ipotizzare nuovi poteri per la Banca d’Italia e per la Consob se poi, nella gestione operativa, si applica una filosofia del vivere e lasciar vivere”.

Al di là del soccorso negli aumenti di capitale delle banche venete, il Fondo Atlante può realmente aiutare il sistema bancario a ridurre significativamente le sofferenze nette e, per questa via, a disinnescare la mina vagante del Monte dei Paschi?

“Non bisogna pretendere troppo e nemmeno caricare il Fondo Atlante di troppi compiti, ma certamente è un passo avanti nello sforzo di disfarsi dell’eredità negativa del passato. Quanto a Mps, il suo futuro diventerebbe più semplice se finalmente arrivasse una crescita economica più solida”.

Come immagina il futuro prossimo delle banche italiane? La fusione tra Bpm e Banco Popolare può aprire una nuova stagione di aggregazioni e il gruppone delle Bcc sarà in grado di reggere la concorrenza dei giganti del credito senza perdere i legami con il territorio?

“Le fusioni vanno sempre valutate per quello che sono: operazioni necessarie ma non sufficienti per risolvere la debolezza strutturale da cui originano i problemi di fondo delle banche, a partire dalla loro inadeguata redditività. Non sono il toccasana, ma possono essere l’occasione per focalizzare meglio i piani industriali e per rivedere la struttura dei costi che, insieme alla bassa crescita economica, zavorrano la banche. Quanto alla holding delle Bcc che uscirà dalla recente riforma bisogna considerare che nel mondo del credito cooperativo ci sono indubbi punti di eccellenza ma anche situazioni drammatiche e che quindi sarà essenziale vedere come verrà fatta la sintesi”.

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