Condividi

Internet ed editoria: la cultura digitale può aiutare i giornali? Da Washington Post a New Republic

La cultura tecnologica aiuta davvero i giornali? – Dal caso di “New Repubblic” al nuovo “Washington Post” di Jeff Bezos – Il modello Amazon: il business guidato dalla tecnologia e la sinergia tra differenti gruppi di diversa cultura che operano al massimo delle loro capacità può essere il cocktail giusto per rinnovare i giornali e renderli sostenibili

Internet ed editoria: la cultura digitale può aiutare i giornali? Da Washington Post a New Republic

Che i giornali abbiamo bisogno di una robusta cura ricostituente, ci sono pochi dubbi. Bisogna però stare attenti al cocktail di farmaci. I giornali sono degli organismi molto fragili, inoltre hanno una certa età. Sono fatti di intellettuali, con una propria visione del mondo e con una considerazione del proprio lavoro ai vertici della piramide delle professioni. La convinzione condivisa, senz’altro molto romantica ed esagerata, che la stampa sia uno dei baluardi delle democrazie occidentali, anzi un loro vero e proprio carattere costitutivo, aumenta la sensazione dei giornalisti di essere investiti di una qualche missione superiore.

E’ emblematico l’atteggiamento di una testata d’informazione francese online, peraltro ben fatta grazie al lavoro di giornalisti professionisti usciti dalla migliore stampa transalpina. Trovatasi a corto di liquidità ha lanciato un appello ai lettori perché contribuissero a mantenerla in vita così da poter assicurare ai giornalisti un salario di 90mila euro all’anno. Ci si può immaginare la risposta della rete in un paese che è al 10% di disoccupazione. I giornalisti alle volte sono un mondo a parte.
Si capisce bene quanto sia difficile riformare strutture come i giornali.

La visione dei disrupters

Muoversi rapidamente e rompere cose, che è la filosofia di Mark Zuckerberg, il commander in chief dell’esercito dei disrupters, può essere un’arma a doppio taglio. L’ha verificato abbastanza rapidamente un compagno di avventure di Mark, il biondo Chris Hughes, co-fondatore di Facebook insieme a Zuckerberg e ai compagni di dormitorio di Harvard Eduardo Saverin e Dustin Moskovitz.

Nel 2012 Hughes, che è stato l’unico del quartetto originario di Facebook a laurearsi, ha acquistato un’istituzione della stampa progressista come “The New Republic” di cui è diventato anche direttore. Di fede assolutamente democratica, coniugato Sean Eldridge (l’unione è una delle coppie gay più potenti d’America), responsabile delle attività digitali della campagna elettorale di Obama nel 2008, Hughes sembrava la persona mandata dal destino per portare lo storico think-thank liberale verso la sicurezza economica. Bene, dopo neppure due anni di cura Hughes, il direttore responsabile, il direttore editoriale e una dozzina di giornalisti di “The New Republic” se ne sono andati via, sbattendo la porta e mandando a quel paese il potente proprietario.

Giornali: uno scenario in chiaroscuro

Di fronte al caso “The New Republic” viene spontanea la domanda se la cultura tecnologica possa davvero aiutare l’industria dell’informazione a risollevarsi dalla depressione in cui è crollata. La risponda è dipende, perché dipende davvero.
La cultura tecnologica del suo nuovo proprietario, Jeff Bezos, potrebbe rimettere in piedi davvero il “Washington Post”. La proprietà del NYTimes, invece, sembra che non stia facendo quanto occorrerebbe per introdurre la cultura digitale a tutti i livelli dell’organizzazione del grande quotidiano, come ha denunciato un graffiante documento interno che ha fatto cadere qualche testa di troppo. Un ritardo oggettivo che ha spinto lo stesso David Carr, il media columnist del giornale di New York, a collocarlo tra i media a maggior rischio nel 2015.

Grazie a una cultura tecnologica eseguita al millimetro, Vice Media è diventata la testata d’informazione più ammirata, più positivamente citata e soprattutto più valutata, nell’ordine di miliardi di dollari, del pianeta. Il ritorno di valore nell’informazione ha dell’incredibile: appena un anno e mezzo fa un’istituzione del giornalismo come il “Post” fu acquistata per appena 250 milioni. La stessa cifra che Facebook è disposto a pagare per acquistare, con una decisione di pochi minuti, un’appena nata start-up con qualche promettente ma assolutamente non verificato business.
C’è però “The New Republic” a complicare il lieto fine.

Hughes e il “New Republic”

La colpa di Hughes è quella di essersi prefisso come obiettivo principale il difficile compito di fare del “New Republic” un’attività redditizia. Perché in rete una testata d’informazione possa sperare di produrre un reddito deve rivolgersi a modelli giornalistici come Buzzfeed o Vox. Questi modelli sono molto distanti dalla cultura di “New Republic” e si rivolgono anche a un pubblico differente di lettori che viene raggiunto essenzialmente grazie a contenuti virali, gossip e articoli di qualità discutibile che incorporano il native advertising.

Ecco l’accusa rivolta a Hughes dalla redazione del “New Republic” di aver danneggiato l’immagine autorevole del giornale in nome del profitto. Sinistra e profitto, sin dai tempi di Marx, sono una coppia sempre sull’orlo del divorzio, qualcosa che si è effettivamente verificato a “New Republic”. Eppure il problema del “New Republic”, come di molte altre testate progressiste indipendenti, è proprio quello di sostenersi economicamente.

Sebbene il giudizio delle principali testate statunitensi riguardo alla condotta di Hughes sia generalmente negativo, è innegabile che il “New Republic” abbia affrontato non poche difficoltà economiche, oggi come in passato, tanto che nel 2002 e nel 2007 Marty Peretz, proprietario e caporedattore dal 1974 al 2012, era stato costretto a vendere quote ingenti della rivista ad alcuni finanziatori.

Bezos e il “Washington Post”

Se la redazione del “New Republic” piange, quella del “Washington Post” sorride. L’idea di Jeff Bezos di fare del “Post” anche una software house sta dando i primi frutti e piace a tutto il gruppo che ha riacquistato la fiducia perduta. Una serie di accordi con testate locali, a cui il quotidiano di Washington già fornisce dei contenuti, fanno sì che la piattaforma di Content management del “Post” motorizzi i siti di queste testate. Dall’acquisto del giornale, Bezos ha continuato a investire sia nell’area editoriale che in quella tecnologica, lanciando prodotti digitali a raffica e rafforzando tutte le procedure automatizzate di gestione e controllo.

Adesso ci sono 225 sviluppatori e tecnici che lavorano al giornale. I risultati sono arrivati: in un anno, secondo i dati di ComScore, i visitatori unici del sito sono cresciuti del 62%. L’idea di fondo, già abbozzata dai precedenti proprietari (i Graham), è quella di internizzare tutte le attività IT e metterle sul mercato una volta sviluppate e messe a punto. È la trasposizione del modello Amazon, uno dei fattori più importanti del suo successo: il business è guidato dalla tecnologia.

Tutta l’area software del “Post” si sta trasferendo all’interno di un parco tecnologico, ricco di start-up e di nuove professionalità, in Virginia non lontano dalla sede storica del giornale.

La strategia a lungo termine di Bezos è quella di costruire intorno ai giornalisti, che continuano a mantenere un’autonomia pressoché completa di movimento e di decisione riguardo ai contenuti, una infrastruttura tecnologica di alto profilo tesa a spingere il loro lavoro. Il punto di arrivo deve essere quello di costruire un modello sostenibile economicamente per creare e vendere giornalismo di qualità.

Che sia veramente il “modello Amazon” la cura giusta per i giornali? La sinergia efficace tra differenti gruppi di differente cultura, che operano al massimo delle loro capacità, può essere veramente il cocktail giusto di farmaci per la cura dei giornali.

Commenta