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Inflazione, Fed e Bce sotto accusa: la guerra non spiega tutte le previsioni sbagliate. Parla Benigno

INTERVISTA A PIERPAOLO BENIGNO, economista e professore dell’Università di Berna – “Usa ed Europa hanno sottovalutato l’impatto delle politiche di sostegno all’economia durante la pandemia e i modelli econometrici non riescono a catturare shock estemporanei di così larga portata”

Inflazione, Fed e Bce sotto accusa: la guerra non spiega tutte le previsioni sbagliate. Parla Benigno

La sottovalutazione della nuova ondata di inflazione, abbondantemente sopra l’8% negli Usa e in Europa, con effetti ancora da esibirsi completamente sui prezzi finali in molti segmenti, ha coinvolto a tutti i livelli le autorità monetaria di mezzo mondo. Transitoria, di passaggio, persistente ma destinata ad assorbirsi, fino alle ultime previsioni che vedono a lungo l’inflazione ben oltre i target prefissati. «Le banche centrali probabilmente hanno sottovalutato la dinamica inflattiva. Hanno dovuto affrontare anche shock non attesi, da ultimo la guerra che ha contribuito a surriscaldare ancora di più i prezzi energetici e delle materie prime», osserva Pierpaolo Benigno, professore di Macroeconomia Monetaria all’Università di Berna e Research Fellow EIEF.

Quasi tutte le previsioni delle autorità monetarie sull’inflazione si sono rivelate errate.

«Stati Uniti ed Unione Europea hanno sottovalutato l’impatto delle politiche di sostegno all’economia durante la pandemia. Anche gli effetti dei colli di bottiglia lato offerta nelle catene del valore sono stati ampiamente sottovalutati».

Perché?

«I modelli econometrici non riescono a “catturare” shock estemporanei di così larga portata. Diversa è la questione della mancata previsione degli effetti di stimolo derivanti dall’aumento della domanda aggregata».

Preso atto della sottovalutazione, la convince la strategia aggressiva della Fed?

«Negli Usa c’è un mercato del lavoro molto “stretto”, è difficile trovare lavoratori disponibili. In una situazione di forti pressioni salariali e di alti costi dell’energia non c’è altra strada se non quella di una politica monetaria aggressiva. Anche se scomponessimo le varie parti dell’inflazione, le previsioni a medio termine sarebbero comunque alte. Si tenga conto che con una inflazione all’8% e tassi previsti per il 2023 attorno al 3%, tecnicamente siamo in economie con tassi reali ancora negativi. È un puzzle teorico».

Come si compone questo puzzle?

«Dove sta il tasso reale di equilibrio? Questa è la grande questione».

Nei nuovi equilibri di potere europeo, in Bce chi governerà questa scelta? Francia o Germania?

«Jens Weidmann è stato a lungo la voce tedesca della politica monetaria in Europa, oggi la politica europea è in via ridefinizione. La Lagarde ha detto che la Bce è pronta a creare nuovi strumenti se necessario. Ma con una inflazione in Germania a livelli mai visti e con gli effetti negativi della guerra ancora tutti da disvelarsi, il quadro resta molto complesso».

Sta di fatto che la BCE è più attendista della Fed.

«Se arriva la stagnazione in Europa potrebbero esserci degli effetti naturali di contenimento sulle pressioni inflazionistiche. Per questo a Francoforte sono molto attenti a valutare il trade off tra “cura” dell’inflazione e la decelerazione della crescita. Bisognerà vedere cosa succede anche sul campo delle contrattazioni salariali».

I sindacati non sembrano spingere particolarmente su questo punto. Cosa succederà ai consumi Europa?

«La Bce ha un mandato preciso, quello della stabilità dei prezzi. Il mercato del lavoro in Europa non è così “stretto” come quello degli Usa, certo se ci fossero sindacati forti la spinta per rivedere le contrattazioni sarebbe già iniziata».

I mercati sono ancora convinti nelle loro aspettative della forza delle banche centrali?

«In questi 15 anni di crisi la politica monetaria si è dimostrata uno strumento forte, anche se il canale diretto tra tassi e inflazione si è un po’ rotto. Ribadisco la grande questione: le banche centrali occidentali devono fare i conti con un tasso reale naturale che si è abbassato negli ultimi anni. Per tanti motivi, partendo anche dalla questione demografica. Abbiamo visto stagioni con una inflazione al 2% e tassi al 4%, se lo facessimo adesso cosa succederebbe? Oggi la politica monetaria governa l’economia con una inflazione al 7-8% per cento e tassi che sono ancora vicini allo zero e si prevede che al massimo si attesteranno al 2-3%».

Anche la globalizzazione aveva reso le singole politiche monetarie più difficili da veicolare?

«Lo ha fatto aumentando in maniera fortissima gli effetti competitivi sui mercati delle merci e quelli finanziari. Oggi stiamo tornando indietro, si assiste ad un processo di parziale de-globalizzazione e di regionalizzazione. La riorganizzazione delle catene del valore, con il reshoring dall’Asia, avrà comunque effetti sui prezzi dei beni ancora da ponderare».

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