Condividi

In tempi di crisi i rating sono destabilizzanti e andrebbero sospesi per non alimentare turbolenze

di Giovanni Ferri* – La funzione dei rating cambia completamente a seconda che i mercati vivano situazioni normali o di crisi: adesso il gioco sembra essere sfuggito di mano alle agenzie e rischia solo di alimentare la speculazione. “E’ tempo di abbassare il volume per evitare che danzatori di sirtaki, fado, ballate gaeliche, flamenco si facciano male”

Le agenzie di rating – settore dominato dalle americane Moody’s, S&P’s e Fitch – sono da sempre croce e delizia dei mercati finanziari. Da un lato, guidano le scelte degli investitori, dall’altro aiutano gli emittenti a raggiungere gli investitori secondo il loro profilo di rischio. Ciò le rende uno snodo centrale del sistema finanziario.

I rating sintetizzano una serie di informazioni in un semplice indice alfa-numerico (da AAA a CCC o D), un giudizio complessivo su solidità e solvibilità di chi emette titoli. Se è facile capire la scala dei rating, ciò non vale per la loro attribuzione, cioè cosa influenzi la solidità finanziaria di una società o di un paese. Per non scordare il problema più grande: spesso il rating non corrisponde al vero stato di salute dell’emittente.

Puntualmente, ad ogni bufera finanziaria le agenzie finiscono sul banco degli imputati. È così anche nell’attuale crisi dei debiti pubblici in Europa? E quanta responsabilità hanno effettivamente?1

Troppo spesso, a giudizio dei più, le agenzie hanno rivisto al ribasso troppo tardi i rating di emittenti importanti e allora hanno magari calcato eccessivamente la mano – si ricordi per tutti il caso della crisi asiatica nel 1997-1998 – aggravando così la pro-ciclicità degli investimenti e il flight to quality. E gli italiani ricordano bene che, nella torrida estate del 1992, le agenzie declassarono il nostro debito pubblico solo dopo che il Governo Amato aveva intrapreso il primo serio provvedimento (da 90.000 miliardi di lire) di stabilizzazione fiscale, contribuendo così alla crisi della lira.

Vi sono state anche molte critiche su rating inflazionati assegnati a soggetti privati, laddove le agenzie sono state indiziate di pressappochismo, quando non di connivenza con gli emittenti, indotta dai conflitti di interesse dovuti al fatto che sono gli emittenti a pagare le commissioni di rating. Casi del genere sono emersi in tutta evidenza nella stagione dei mega-fallimenti societari (Enron, WorldCom e molte altre negli USA, Parmalat in Italia, Vivendi in Francia) del 2001-2002. Ed è stata la percezione del loro coinvolgimento nel piazzare su scala globale i c.d. “titoli tossici” legati ai mutui subprime che ha riportato le agenzie di rating nell’occhio del ciclone, nella crisi culminata con il fallimento di Lehman Brothers a settembre 2008, laddove le agenzie avevano prima elargito rating piuttosto elevati su quei titoli e poi, con lo scoppio della crisi, li avevano declassati in massa di vari livelli. In effetti, in molte emissioni di finanza strutturata le agenzie erano soggiaciute a un grande conflitto di interessi svolgendo sia la funzione di consulenza che di assegnazione del rating (vari osservatori spiegano così come da un portafoglio di qualità media B+ si sia potuto ottenere circa il 70% di tranche CDO valutate AAA2 e sono emerse email imbarazzanti scambiate tra analisti delle agenzie).

Dopo la debacle della finanza strutturata i governi hanno preso seriamente in considerazione la necessità di una regolamentazione delle agenzie di rating al fine di indurle ad un comportamento più responsabile. La nuova regolamentazione sta entrando in funzione in Europa.

Tornando al ruolo delle agenzie di rating nell’attuale crisi dei debiti pubblici europei è utile ricordare come la prospettiva internazionale sia cambiata velocemente nello scorso triennio. Nell’autunno del 2008 in molti dissero “niente sarà più come prima” quando, nell’occhio del ciclone della crisi finanziaria più grave degli ultimi sessanta anni, persino i giganti di Wall Street mostravano piedi d’argilla. I governi di tutto il mondo venivano allora sollecitati al capezzale delle banche d’investimento agonizzanti. Uno ad uno i più bei nomi – Bear Stearns, Lehman, Merrill Lynch, JP Morgan e Goldman Sachs – caddero dalle stelle alle stalle in una danza frenetica, come dervisci storditi dalle proprie giravolte spericolate. Allora, i debiti pubblici nazionali sembravano l’ultimo dei problemi. C’era da salvare la finanza dai suoi eccessi speculativi. Bisognava fare in fretta. Tranne Lehman, lasciata fallire improvvidamente, tutti quei blasoni della finanza vennero salvati col denaro pubblico.

Oggi, molti di quei governi che venivano lodati – si pensi all’Irlanda – per la celerità con cui si erano mossi nel salvataggio delle proprie banche sono sotto attacco per la presunta insostenibilità dei loro debiti pubblici. Sono finiti sul banco degli imputati i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna).

Dunque, forse non è vero che “nulla è più come prima”. The Economist, Cassandra liberale, è tornato ad ammonire delle bolle finanziarie in giro per il mondo. Ma nel frattempo, la speculazione è scatenata sui debiti pubblici europei e dai debiti pubblici sta percolando persino verso la solidità delle banche e delle società private del vecchio continente.

Naturalmente le agenzie di rating non possono ignorare i valori dei titoli del debito pubblico o anche di emittenti privati quando i mercati li mettono sotto stress. Ma, vi è da chiedersi se effettivamente non si sia entrati in un loop che si autoalimenta.

Chi guardasse ai conti di Eurolandia nel suo complesso vedrebbe che in sostanza non vi è squilibrio esterno (i deficit di alcuni paesi membri – soprattutto i paesi del Sud Europa – sono compensati dai surplus con l’esterno dell’area di altri paesi membri – specie la Germania). Dunque, da questo punto di vista è più debole la situazione degli USA che non hanno aggiustato il loro squilibrio esterno: e non è forse un caso che le principali agenzie di rating abbiano di recente messo sotto osservazione la AAA agli USA, dopo che l’agenzia di rating cinese Dagong lo aveva già declassato gli USA dall’autunno scorso.

La crisi del debito europeo si alimenta soprattutto delle incertezze e dei bracci di ferro politici, non è dovuta a uno squilibrio esterno dell’area. In attesa di un rinsavimento dei leader europei, vi è veramente da chiedersi se i rating non siano sfuggiti di mano e, invece di essere parte della soluzione, stiano diventando parte del problema. In altri termini, la grande utilità dei rating in tempi normali ha un’altra faccia in tempi di crisi: può diventare un elemento che contribuisce a destabilizzare. Forse qualcuno dovrebbe cominciare a pensare che conviene fare temporaneamente a meno dei rating quando i sistemi stanno avvitandosi su se stessi.

Dopo tutto, Chuck Prince, il CEO di Citibank, si discolpava per aver compromesso la sua banca nella finanza strutturata dicendo che “finché c’è musica bisogna ballare”. Magari è tempo che qualcuno abbassi il volume per evitare che i danzatori di sirtaki, di fado, di ballate gaeliche, di flamenco e di tarantella si facciano male seriamente.

* Ordinario di Economia politica all’Università di Bari, già dirigente Banca d’Italia e Banca Mondiale

1 Per una trattazione del ruolo e delle problematicità si rimanda a G. Ferri e P. Lacitignola (2009), Le agenzie di rating tra crisi e rilancio della finanza globale, Bologna, il Mulino.

2 Cfr. Benmelech, E. e Dlugosz, J. (2009), “The Alchemy of CDO Credit Ratings”, Journal of Monetary Economics, Carnegie-Rochester Conference, vol. 56, no. 5.

Commenta