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Imprese e Covid: perché le “micro” soffrono di più

Da un’indagine Istat e da un Focus Bnl emerge che la pandemia ha colpito più duramente le microimprese per ragioni strutturali legate a produttività, investimenti e competenze del personale

Imprese e Covid: perché le “micro” soffrono di più

All’arrivo della pandemia il sistema industriale italiano era già in sofferenza per una serie di problemi strutturali, che oggi si ripercuotono sulle diverse capacità di risposta alla crisi. Uno studio pubblicato a gennaio dall’Istat divide le imprese italiane in cinque gruppi a seconda delle strategie adottate per rispondere all’emergenza economica e sanitaria:

  1. statiche e in crisi: quelle che si limitano a subire senza opporre alcuna strategia di reazione;
  2. statiche e resilienti: le imprese che non hanno messo in atto strategie di reazione perché non hanno subito effetti negativi rilevanti;
  3. proattive in sofferenza: le aziende che sono state colpite duramente dalla crisi ma hanno cercato di reagire;
  4. proattive in espansione: le realtà imprenditoriali colpite lievemente, che non hanno alterato il proprio sentiero di sviluppo precedente;
  5. proattive avanzate: imprese colpite in maniera variabile dalle conseguenze della crisi, ma che nel corso del 2020 hanno aumentato gli investimenti rispetto al 2019.

Ora, il punto è che esiste una correlazione fra queste categorie e le dimensioni delle imprese. Le unità produttive “statiche in crisi” sono infatti molto più piccole delle “proattive avanzate”: rispettivamente, in media, 6,5 addetti contro 47,2.

A questo proposito, l’economista Simona Costagli rileva in un recente Focus Bnl che “all’ultima data precedente lo scoppio della pandemia per cui erano disponibili informazioni strutturali (2018), i dati mostrano” che “le microimprese (meno di 10 addetti) rappresentano in Italia il 95% delle unità produttive, impiegano il 43,7% degli addetti e realizzano il 27,5% del valore aggiunto”.

Si tratta di uno svantaggio competitivo grave, perché “la dimensione d’impresa risulta correlata sia alla produttività sia alla propensione a investire – prosegue l’analista – Il valore aggiunto per addetto di una microimpresa in Italia è pari a 30.000 euro contro i 72.680 di una grande. Nella manifattura un’impresa con oltre 250 addetti investe circa 14.500 euro l’anno per addetto, contro i 3.600 euro di una micro”.

Nel complesso, scrive ancora Costagli, “la struttura sbilanciata verso la piccolissima dimensione d’impresa e il livello di produttività e investimenti proporzionale alla dimensione sono insieme causa ed effetto di uno scarso impiego sia di personale qualificato sia di infrastrutture digitali. In Italia tra gli occupati con oltre 15 anni nel sistema produttivo solo il 5,1% è in possesso almeno di un diploma di istruzione terziaria o di un diploma accademico, mentre il 4,7% non è in possesso di alcun titolo o al massimo del solo diploma di scuola primaria”.

D’altra parte, è chiaro che la reazione del sistema produttivo italiano al Covid non dipende solo da queste caratteristiche. Anzi, il fattore più decisivo è diverso impatto che le chiusure imposte per frenare il contagio hanno avuto sui diversi settori. Tuttavia, “dalle analisi condotte è evidente che a essere più penalizzate sono state le unità meno produttive – conclude Costagli – con un costo del lavoro più elevato della media, una scolarizzazione dei dipendenti inferiore alla media e più orientate verso i mercati locali o nazionali”. In altre parole, le imprese più piccole.

Anche per queste ragioni il presidente del Consiglio, Mario Draghi, intende riservare gli aiuti pubblici alle aziende con una prospettiva di ripresa, escludendo quelle che già prima della pandemia aveva problemi a rimanere sul mercato.

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