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I mercati finanziari hanno spodestato governi e imprese ma hanno ragione?

Dai Quaderni dell’AREL – Pubblichiamo uno stimolante saggio dell’ex ad di Finmeccanica nel quale si riflette sul ruolo dei mercati e della finanza e su globalizzazione, potere e diseguaglianze in società sempre più polarizzate – Oggi la finanza vale 10 volte il Pil mondiale ma “non è un sistema democratico”. “Sono cresciuti i ricchi che non lavorano e ancor di più i poveri che lavorano”

I mercati finanziari hanno spodestato governi e imprese ma hanno ragione?

“È un bene che la gente non capisca il nostro il nostro sistema bancario e monetario, perché se lo facesse credo si scatenerebbe una rivoluzione entro domattina”, diceva Henry Ford. In effetti i mercati finanziari condizionano pesantemente lo sviluppo delle società e le scelte delle istituzioni politiche che li hanno creati e tutelati. Dagli anni Ottanta del secolo scorso, i grandi intermediari finanziari si sono battuti per la libertà dei movimenti di capitale, la deregolamentazione dei mercati, la liberalizzazione dell’attività finanziaria, il passaggio da una vigilanza diretta a una indiretta.

E hanno vinto, conquistando un potere enorme: determinano le condizioni di sviluppo delle imprese; i processi di crescita delle nazioni; la sostenibilità delle politiche dei loro governi. Condizionano le posizioni dei partiti e dei leader politici. Lo usano, bene o male, questo potere?La teoria assegna ai mercati le funzioni di allocare le risorse, gestire i rischi, trasmettere la politica monetaria, far funzionare il sistema dei pagamenti. Li concepisce come un sistema il quale, eliminate le barriere e lasciato lavorare indisturbato, accrescerà il benessere del mondo. E prescinde da valutazioni di ordine morale o politico.

In effetti, “negli ultimi trenta o quarant’anni, la vita pubblica è stata animata dalla fede che i meccanismi dei mercati potessero rispondere a ogni domanda e risolvere qualsiasi problema. Così, la vita politica ha perso il senso della moralità e del fine pubblico: sembra che ragionare ispirandosi al mercato ci permetta di allocare acriticamente beni e redditi. Invece, in molti casi, noi dobbiamo dare giudizi morali”. L’analisi del comportamento degli intermediari e dei mercati deve dunque estendersi alla stabilità di questi ultimi; alla loro capacità di influenzare gli equilibri di potere tra le diverse aree economiche e politiche del mondo; al rapporto con i governi e le imprese non finanziarie; alla propensione a favorire processi di riduzione delle diseguaglianze.

Atteso che vivere in un sistema meno diseguale rappresenti un beneficio per ogni tipo di istituzione, gruppo sociale, persona. Nel seguito ci concentreremo su questi temi. Trarremo, infine, alcune conclusioni in merito alla necessità – o meno – di riformare e controllare maggiormente i mercati. Questi ultimi non sono un fine, come alcuni sembrano superficialmente ritenere, ma un formidabile strumento di sviluppo, al tempo stesso potente e delicato: va maneggiato con cura.

1- Partiamo da due presupposti. Il primo è che la finanza – che pure rappresenta “una delle grandi conquiste intellettuali dell’umanità” – si occupa di “traslare nel tempo il potere d’acquisto” e di “trasferire e gestire i rischi” ma non “crea valore” nel senso in cui lo fanno la produzione di beni e servizi non finanziari. Il secondo è che, lo ha dimostrato Minsky, i mercati finanziari sono intrinsecamente instabili e hanno reso inesorabilmente instabili anche le economie di mercato, dominate dalla sovrastruttura finanziaria cresciuta su di esse.

I mercati sono stati sempre soggetti a controlli. Il gold standard ha consentito alla finanza del XIX secolo di lavorare bene grazie a: un meccanismo automatico di aggiustamento degli squilibri; una sola valuta di riferimento; un solo centro finanziario e un unico sistema normativo; un solo paese egemone che era anche un esportatore netto di capitali. Certo, non si impediva l’eccesso – che peraltro sembra essere uno dei tratti distintivi del capitalismo – e il potente banchiere della City «poteva creare o affossare qualsiasi impresa, far salire o scendere il costo del denaro a suo piacimento».

Ma il sistema era intrinsecamente stabile e contribuì al finanziamento della Rivoluzione Industriale, allo sviluppo del commercio internazionale e alla costruzione di un mondo piacevole, per quei pochi che all’epoca potevano goderne. Furono l’emergere, dagli anni Venti del Novecento, della questione sociale collegata con l’espansione della democrazia a decretarne la fine, seguita da un periodo di instabilità dove si sono combattute guerre commerciali, valutarie e finanziarie. La lezione è stata di quelle che pesano: un sistema finanziario globale funziona se è regolato, diventa un problema una volta lasciato a se stesso.

Sembrava che la lezione fosse stata imparata. Nel disegnare l’ordine finanziario del Secondo Dopoguerra, per la prima (e sino ad ora ultima) volta nella storia «gli obbiettivi sociali e l’economia nazionale erano messi avanti all’economia globale» e ai mercati. Il sistema di Bretton Woods era fondato sulla convinzione che un’eccessiva libertà dei movimenti di capitale minasse la stabilità finanziaria, fosse di ostacolo allo sviluppo del commercio internazionale e vincolasse eccessivamente le politiche dei singoli paesi. Pertanto, la riduzione dei costi di transazione del commercio richiedeva l’imposizione di elevati costi di transazione nella finanza internazionale: in altre parole, era necessario introdurre controlli sui capitali, specie su quelli a breve termine che «saranno desiderabili per la maggior parte dei paesi non solo negli anni a venire ma anche nel lungo periodo».

2. In realtà la lezione non venne mandata a memoria. Man mano che svanivano i ricordi dell’instabilità del periodo tra le due guerre, gli interessi finanziari iniziarono a pesare sempre di più nella definizione della politica economica. L’abbandono del sistema dei cambi fissi condusse all’ampliamento dei mercati, cui era richiesto di gestire i nuovi rischi di cambio e di tasso d’interesse. Il volume delle attività negoziate su di essi aumentò da 30 a 90 trilioni di dollari tra il 1975 e il 1985, valori peraltro risibili rispetto a quello del 2015 (oltre 700 trilioni). Crebbe la dimensione degli intermediari che richiedevano libertà dei movimenti di capitale, mercati omogenei e meno regolamentati dove ricercare opportunità di profitto, necessarie per sostenere il corso delle azioni e realizzare consistenti aumenti di capitale a loro volta indispensabili per finanziare la crescita.

I progressi nelle tecnologie informatiche consentivano di sfruttare economie di scala e di gamma che giustificavano la propensione all’incremento dei volumi e all’ampliamento della presenza geografica degli operatori. Il processo si completò con il passaggio da un sistema di sorveglianza diretto (tutto ciò che non è espressamente permesso è vietato) a uno indiretto (tutto ciò che non è espressamente vietato è permesso) e con l’introduzione di coefficienti patrimoniali che lasciano «liberi gli intermediari di assumere qualunque rischio purché dispongano di un capitale commisurato all’entità dei medesimi».

Quest’ultimo non è un sistema del tutto efficace ed efficiente. Lo hanno probabilmente percepito gli stessi regolatori se nel tempo hanno cercato di rendere le norme al tempo stesso più estese e stringenti: dal 1988 al 2014, il numero di calcoli che una banca internazionale deve fare per determinare i propri coefficienti patrimoniali è passato da meno di 10 milioni a più di 200 milioni; nel Regno Unito nel 1980 vi era un regolatore ogni 11.000 persone impiegate nella finanza, nel 2012 uno ogni 300! La globalizzazione finanziaria ha dunque sconvolto le relazioni tra paesi, tra banche e governi, tra mercati e imprese. E, lasciata a se stessa, rischia di innescare ampie e imprevedibili crisi e conflitti.

Storicamente, i principali interlocutori dei governi occidentali sono state le industrie dell’energia e della difesa. Quella finanziaria ha, per molti versi, occupato il loro posto. E la liberalizzazione dei mercati dei capitali è stata un’iniziativa dei governi inglese e statunitense per imporre le regole e il ruolo del sistema bancario anglosassone. Condizione necessaria è la prevalenza della “tecnologia finanziaria” sul capitale. Quest’ultimo, un tempo al centro del sistema, ha perso di peso. È diventato una “materia prima”: in quanto tale vale poco perché la libertà di movimento lo rende praticamente infinito e acquista rilevanza solamente quando genera un rendimento adeguato, cioè una volta “lavorato” dalle banche che lo incorporano in attività finanziarie da collocare sui mercati.

Un sistema nel quale la rilevanza del processo di accumulazione del capitale – oggi concentrato nei paesi emergenti e in particolare in Asia e nel Medio Oriente – viene subordinata alla tecnologia finanziaria, che è prerogativa delle banche occidentali, influisce, è evidente, sui conflitti per la distribuzione del potere tra Occidente e resto del mondo. La riforma del sistema finanziario britannico del 1986 (il “Big Bang”); il Banking and Branching Efficency Act statunitense del 1994, che eliminò le restrizioni sulle attività bancarie da uno Stato all’altro; l’abolizione, nel 1999, del Glass-Steagall Act, la legge bancaria del 1933 che separava le attività bancarie commerciali da quelle di investimento; la frustrazione dei tentativi di applicare la Legge Dodd-Franks del 2009 reintroducendo limitazioni all’attività degli intermediari dopo la crisi del 2007-2010; l’ampliamento della possibilità per i fondi pensione e le compagnie di assicurazione di investire i loro portafogli sul mercato azionario americano; l’eliminazione negli anni Ottanta, da parte dell’OCSE, della distinzione tra capitali a breve e investimenti a lungo termine; la fusione tra la Borsa di Londra e Francoforte, sono altrettanti strumenti per il sostegno del sistema finanziario occidentale e il controllo dei flussi di capitali sulla base di regole anglosassoni.

Si è così creata una gerarchia sui mercati:
– gli intermediari (banche commerciali, banche d’affari);
– i portatori di capitale “intermedi” (investitori istituzionali);
– i portatori di capitale “puri” (risparmiatori, istituzioni con saldi finanziari attivi: ad esempio i paesi emergenti);
– i prenditori di capitali (imprese non finanziarie e governi di paesi in deficit).

Con la liberalizzazione dei movimenti di capitale e la crescita del potere degli intermediari, i presupposti del benessere di un paese e della sua influenza nel mondo risiedono nella capacità di governare enormi trasferimenti di liquidità, controllando i mercati e creando o distruggendo ricchezza. Chi controlla i movimenti di capitale finanzia i percorsi di sviluppo della tecnologia e dei sistemi industriali e quindi la distribuzione del potere sui mercati dei beni e dei servizi. E non è vero che i mercati finanziari non sono controllabili perché troppo ampi, composti da troppi operatori, con bassi costi di transazione e quindi molto concorrenziali.

I processi di liberalizzazione sono appunto serviti alle grandi banche per consolidare l’influenza sui mercati e acquisire capacità globali.
Nel 2015, le cinque maggiori banche americane detenevano il 45% delle attività bancarie statunitensi, rispetto al 25% del 200015. Nel mondo, 42 banche gestiscono il 50% delle attività finanziarie. Si è determinata una gerarchia di intermediari in base alla loro capacità di assumersi rischi e di raccogliere e piazzare risorse nel mercato globale (il cosiddetto placing power):

– banche globali: 6 (3 americane, 1 inglese, 1 tedesca, 1 svizzera);
– banche internazionali: 14 (di cui 4 americane 2 francesi, 2 inglesi e 3 giapponesi);
– banche regionali: 9 (di cui 1 italiana);
– banche nazionali: 13 (di cui 5 cinesi)

Si noti che la presenza delle banche cinesi dipende dall’intermediazione dell’enorme debito contratto dalle imprese nazionali, pari al 160% del PIL, ma esse non sono in grado di svolgere un ruolo significativo a livello globale. In altre parole, gli istituti di credito cinesi “lavorano” il capitale accumulato dal proprio paese, ma non sono in grado di immetterlo sui mercati internazionali e tanto meno di influenzare l’andamento di questi ultimi. Attività, quest’ultima, che riesce benissimo agli intermediari globali e internazionali, che cumulano
ricavi dall’attività di Investment Banking (cioè a più elevato valore aggiunto) pari al 54% della dimensione mondiale di questo comparto; godono di un costo del capitale (WACC) inferiore del 15% a quello medio del sistema bancario e di un Ritorno sul Capitale (ROE) superiore del 17%. Sono i soli a generare profitti nel Mobile Banking dal momento che sono gli unici in grado di compiere gli investimenti richiesti.

L’Occidente, dunque, non ha perso potere rispetto al resto del mondo: semmai ne hanno meno i governi ma la globalizzazione finanziaria ha fatto crescere l’influenza degli intermediari nordamericani ed europei. Il potere è dunque rimasto in Occidente, ma si è spostato dalle istituzioni politiche a quelle finanziarie.

3. La crescita della finanza è utile allo sviluppo? Non è detto: quando il credito al settore privato supera il valore del PIL, la dimensione del sistema finanziario frena l’incremento complessivo della produttività e ostacola la crescita dell’economia. La libertà dei movimenti di capitale ha però scardinato la relazione tra risparmio nazionale e debito pubblico: i grandi intermediari collocano sul mercato il debito dei governi, ne fissano scadenze e rendimenti. A partire dagli anni Novanta si è avviato un processo di trasferimento dai governi ai mercati del potere di determinare gli ambiti entro i quali i paesi sono finanziabili e fissare i vincoli delle politiche economiche e fiscali. Si tratta di un’evoluzione da accogliere con favore e soddisfazione?

L’ortodossia della globalizzazione sostiene che i mercati stimolano i governi ad avviarsi su percorsi di progressiva solidità della finanza pubblica: la crescita economica che ne deriva consentirà di riassorbire gli squilibri sociali generati dalle politiche di stabilizzazione necessarie a intraprendere questo sentiero virtuoso. La crisi finanziaria iniziata nel 2007 ha, viceversa, favorito una polarizzazione del mondo tra paesi virtuosi e altri considerati incapaci di mantenere gli impegni assunti con i creditori e quindi inaccettabilmente rischiosi per i mercati. Ai primi sono state assicurate, a tassi d’interesse vantaggiosi, risorse superiori ai loro fabbisogni; la scarsità di offerta di capitali e il loro elevato costo hanno invece obbligato i secondi a perseguire politiche di rigore che hanno prodotto contrazione di consumi e investimenti e un conseguente indebolimento dei tessuti produttivo e sociale.

Ma la finanza è pro-ciclica, amplifica le onde della congiuntura economica. Così, in mercati dei capitali liberi, le tecnologie informatiche traducono in comportamenti immediati le decisioni degli operatori, generando shock non compatibili con i processi di aggiustamento – necessariamente assai più lenti – dell’economia reale e delle politiche fiscali. Da un punto di vista politico, il dilemma è intricato. I cantori della “virtù” dei mercati ritengono che, non essendo necessariamente incorporato il principio della stabilità finanziaria nella funzione di preferenza dei governi, è un bene che questi ultimi siano soggetti a un vincolo esterno che ne condizioni le politiche. Quanto sono accettabili queste limitazioni per un governo eletto secondo procedure rispettose della sovranità popolare?

Quanto incide tutto ciò sul concetto di democrazia liberale? Di quale legittimità godono i mercati (e gli intermediari che li gestiscono)
per imporre i trasferimenti di reddito e ricchezza impliciti nelle politiche di stabilizzazione? Non è facile rispondere. Da un lato, l’inserimento di un paese in un contesto di globalizzazione finanziaria deriva da trattati, ratificati dal Parlamento, che sembrano attribuire ai mercati un diritto implicito di condizionare le scelte politiche. Dall’altro, la strutturale lentezza di queste ultime – «la democrazia non corre, ci vuole più di un giorno per decidere del benessere dei cittadini», diceva Tocqueville – è difficilmente compatibile con l’immediatezza delle sanzioni comminate da banche e investitori ai creditori inaffidabili.

Resta il fatto che la «globalizzazione profonda» nella quale siamo immersi ha subordinato le politiche nazionali a norme sovranazionali nelle quali è spesso difficile riconoscere obiettivi di tutela dei cittadini rispetto a sistemi finanziari pervasivi e oligopolistici.

4- «Gli speculatori possono essere innocui se sono delle bolle sopra un flusso regolare di intraprese economiche; ma la situazione è seria se le imprese diventano una bolla sospesa sopra un vortice di speculazioni». Nel 2015, il valore delle attività finanziarie mondiali a fine anno ha raggiunto 741 trilioni di dollari, il Prodotto Interno Lordo mondiale i 77 trilioni. Un terzo circa di questa massa finanziaria (249 trilioni) è costituito da attività riferibili alla produzione di beni e servizi (azioni, obbligazioni, prestiti bancari), mentre 492 trilioni sono rappresentati da strumenti derivati. I quali non potranno essere rimborsati con il rendimento degli investimenti produttivi poiché non sono stati loro a finanziarli: ma determinano – in modo del tutto indipendente dalla domanda di investimenti e dal loro rendimento atteso
– i tassi d’interesse applicati al capitale raccolto dalle  imprese manifatturiere.

Gli sviluppi dell’economia reale sono condizionati da strutture finanziarie disconnesse dall’attività industriale. Quest’ultima incontra problemi a sostenere il proprio sviluppo. La globalizzazione finanziaria ha fatto venire meno il rapporto tra risparmio di un paese e finanziamento del suo sistema produttivo, mentre i criteri di valutazione dei mercati si basano su sistemi autoreferenziali come l’oligopolio delle agenzie di rating. Le quali, scottate dalla loro incapacità di emittenti cui avevano assegnato positive valutazioni, hanno teso negli anni successivi alla crisi a inseguire, piuttosto che ad anticipare, gli umori del mercato: accentuando così il carattere pro-ciclico della finanza, che nutre un limitato interesse per l’evoluzione di lungo periodo delle imprese ed è molto attenta alla loro creazione di liquidità nel breve.

Tra il 2000 e il 2015 – con l’eccezione del periodo di crisi 2007/2011 – le aziende quotate sulle borse mondiali hanno distribuito agli azionisti – sotto forma di dividendi, riacquisto di azioni proprie, acquisti di società – quasi il 30% di denaro in più di quanto ne abbiano raccolto sui mercati. Il sistema finanzia gli azionisti, non le aziende. A loro volta, i ratio patrimoniali delle banche – fondati sul principio che quanto più un attivo è liquido quanto meno patrimonio ha bisogno – tendono a privilegiare intermediari che investono in attività – anche sintetiche – negoziate sui mercati organizzati piuttosto che in finanziamenti alle imprese.

Viene quindi scoraggiato il credito alle aziende e gli istituti che lo praticano presentano maggiori fabbisogni di capitale rispetto ai concorrenti. A parità di altre condizioni, una maggiore patrimonializzazione si riflette in una minore redditività relativa del patrimonio, che a sua volta conduce a una minore capitalizzazione azionaria, con la conseguente difficoltà a realizzare gli aumenti di capitale necessari a rispettare i coefficienti di solvibilità. Difficile, con questo sistema, finanziare la crescita; più semplice incrementare le disuguaglianze.

5- Si è creata una società polarizzata, dove convivono ricchezza e diseguaglianza: principalmente a causa di un processo tecnologico che favorisce una redistribuzione del reddito senza precedenti, riducendo i salari reali, sganciandoli dalla produttività e mettendo a rischio la sopravvivenza della classe media, vera cifra distintiva delle società capitalistiche avanzate. Dall’inizio del secolo – al contrario di quanto accaduto nella seconda metà del Novecento – il reddito di impresa viene allocato per circa il 35% al lavoro e il 65% al capitale, la cui liquidità è assicurata dagli intermediari. La Banca Mondiale ha stimato che, se l’uguaglianza tra nazioni è cresciuta, è anche di molto aumentata la diseguaglianza all’interno dei singoli paesi.

La finanza amplifica il fenomeno. La tendenza a chiedere ai paesi meno solidi politiche di rigore che spesso divengono recessive, la preferenza per la liquidità delle imprese e per i loro risultati a breve termine, l’affidare ai mercati il nostro benessere (nel film Gran Torino, Clint Eastwood viene licenziato perché il fondo pensione dell’azienda del vicino di casa aveva preteso una ristrutturazione che aumentasse i profitti della società per cui Eastwood lavorava…) sono altrettante spinte verso un mondo più polarizzato.

Secondo la Banca d’Inghilterra, persino il Quantitative Easing genera diseguaglianza poiché «facendo salire i prezzi di un paniere di titoli, è cresciuta la ricchezza finanziaria delle famiglie conservata al di fuori dei fondi pensione; ma i patrimoni sono pesantemente distorti, dato che il 5% delle famiglie detiene il 40% di questi titoli». Rispetto al passato, sono cresciuti i ricchi che non lavorano e ancor di più i poveri che lavorano. La ricchezza finanziaria pesa più del reddito da lavoro: la prima è concentrata, il secondo insufficiente.

«Possiamo avere la democrazia o possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo averle entrambe». Non è certo che le società occidentali reggano eccessivi livelli di diseguaglianza cui la globalizzazione della finanza le costringe: un sistema democratico postula un accettabile livello di equità, senza il quale è a rischio la coesione sociale, si affievolisce il senso di appartenenza e viene svuotato il principio di sovranità. L’Occidente corre un pericolo significativo: le nazioni falliscono quando le loro istituzioni, un tempo inclusive, divengono escludenti e piegano economia e regole del gioco al servizio delle elites costituite.

6 – Secondo il filosofo Emanuele Severino, «il capitalismo va verso il tramonto perché i conflitti per il dominio della finanza emarginano l’economia capitalista e la concorrenza che ne è l’essenza» e minacciano la libertà, che per sopravvivere ha bisogno dei mercati. E infatti, un grande studioso di finanza, Robert Shiller, sostiene che «un sistema finanziario democratico è ciò che occorre per ridurre l’incertezza e promuovere i valori umani». Il sistema finanziario attuale democratico non lo è. Ma la globalizzazione finanziaria è un fenomeno pervasivo e profondo: i mercati – controllati da pochi intermediari – hanno guadagnato potere a scapito dei governi e delle imprese e ormai i secondi non possono più prescindere dai primi.

Ciò non di meno, l’imposizione di regole globali e il tentativo di rendere omogeneo un mondo nel quale le funzioni di preferenza delle società sono diverse tra loro si sono forse spinti troppo in là. Gli stessi mercati finanziari globali richiedono spesso interventi politici – a volte persino militari – di ordine nazionale poiché la politica continua ad essere un fatto eminentemente locale. L’introduzione di un più «moderato multilateralismo», nell’ambito del quale adattare le regole globali alle specificità di sistemi consentirebbe di cogliere i benefici della globalizzazione mitigandone alcuni effetti distorsivi e rendendola più accettabile a un’opinione pubblica che si sente spesso oggetto di scelte non condivise.

Diciamo subito che, per essere meno instabili e autoreferenziali, più controllabili e maggiormente compatibili con i bisogni della società e le esigenze delle imprese, i mercati debbono diventare più piccoli. Come intervenire? Una modesta aliquota d’imposta sul valore nominale delle transazioni di capitale (qualcosa di simile alla Tobin Tax) limiterebbe i flussi di capitale a breve termine – vera causa dell’instabilità dei mercati – non scoraggerebbe gli investimenti finanziari a lungo termine e ripristinerebbe la separazione tra capitali “benefici” e “dannosi”.
In un mercato meno ampio sarebbe più agevole introdurre forme di separazione operativa e specializzazione funzionale degli intermediari.

Da un lato, segregando le attività svolte in proprio (portafogli di proprietà, prestiti alla clientela) da quelle per conto terzi (asset management); dall’altro distinguendo le attività di negoziazione di titoli da quelle di sostegno agli investimenti. Si ridurrebbero la dimensione media delle banche (che non sarebbero più “troppo grandi per fallire”), la necessità di aumentare le masse gestite e i fabbisogni di capitale. E sarebbe quindi meno pervasiva l’ansia di mostrare ad ogni costo profitti in crescita. In quest’ambito, sarebbe utile – e più agevole – una riforma dei coefficienti patrimoniali così da incentivare il finanziamento degli investimenti industriali e limitare la propensione all’emissione di strumenti derivati non correlati con iniziative produttive e commerciali.

Più in generale, si dovrebbe prendere atto che la sola regolamentazione indiretta degli intermediari è insufficiente quando non distorsiva e immaginare una più efficace combinazione tra sorveglianza diretta e indiretta, compatibile con le specializzazioni funzionali ipotizzate sopra. I mercati azionari potrebbero adottare un’attitudine più riflessiva e lungimirante se si ristrutturassero i parametri di remunerazione del management; si regolassero in modo più stringente le operazioni di buyback; si vietassero alle società di corrispondere dividendi infra-annuali, raffreddando la ricerca di profitti a breve termine; e si reintroducessero le imposte di successione: impedendo che fortune immense, anziché essere messe al servizio di nuove iniziative imprenditoriali, finiscano in mano a eredi che vivranno di rendita e senza merito per molte generazioni.

In un mercato finanziario senza confini, chi potrebbe mai introdurre queste regole? Subito, si direbbe, scatterebbe l’“arbitraggio regolamentare” e i capitali andrebbero là dove la regolamentazione è più favorevole. Ma, si è detto, il sistema è, per così dire, “a trazione occidentale”. Se Stati Uniti, Gran Bretagna ed Unione Europea definissero insieme misure per rendere più “gestibili” e “utili” i mercati finanziari, il resto del mondo, per convinzione o per forza, seguirebbe. E l’Occidente recupererebbe, almeno in parte, quella leadership che molti dicono essere stata perduta.

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