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Harari, una storia del futuro: una pillola ci darà la felicità?

“Homo Deus: a brief history of tomorrow” è il saggio che raccoglie l’impegnativa sfida del giovane storico israeliano Yuval Noah Harari, secondo cui l’homo sapiens cesserà di essere il più brillante algoritmo del pianeta e i computer ci conosceranno meglio di noi e il nostro sarà il pianeta delle app – Oggi lo zucchero uccide più della polvere da sparo ma una pillola ci potrà dare la felicità: sarà davvero così?

Harari, una storia del futuro: una pillola ci darà la felicità?

La storia del futuro 

Scrivere una storia del futuro è una bella sfida per una persona che non sia stata fornita di doti paranormali. A memoria mi viene in mente solo Richard Wagner, che di sfide viveva, ad aver scritto un saggio tanto confuso quanto visionario e preveggente dal titolo Das Kunstwerk der Zukunft (L’opera d’arte del futuro) che purtroppo è diventato introvabile in lingua italiana, una cosa a cui qualcuno sta cercando di porre rimedio. In questo saggio Wagner gettava le basi teoriche dell’opera multimediale che è appunto la forma prevalente di rappresentazione di un’opera del nostro tempo. 

Solo lo storico quarantenne israeliano Yuval Noah Harari poteva tentare qualcosa di simile per quel che concerne la storia. I suoi libri precedenti stavano proprio preparando questo approdo della sua ricerca che è sfociato in un libro dal titolo Homo Deus: A Brief History of Tomorrow. Quest’ultima opera è il seguito e l’epilogo di Sapiens. A brief History of Humankind (2014, solo in inglese) e di Da animali a dèi: Breve storia dell’umanità (2001, disponibile in italiano da Bompiani). Le premesse per Homo deus c’erano tutte, dunque. 

Le lezioni di Harari pubblicate su YouTube sono seguite da decine di migliaia di persone. Anche la sua ricerca, come quella di Peter Singer di cui ci siamo occupati la scorsa settimana, ha una fortissima matrice etica. Infatti, partendo da alcuni quesiti fondanti (siamo più felici dei nostri antenati?, Perché gli uomini dominano sulle donne nella maggior parte delle società?), Harari si immerge nella storia dell’umanità a tutto tondo spaziando tra discipline, epoche e culture. Un sincretismo raro da trovare e soprattutto porto con uno stile del consumato narratore che non disdegna la sensazione, il paradosso e il?coup de théâtre. Alcune sue intuizioni sono strabilianti e lasciano anche un po’ storditi come un bel montante. 

La sua visione complessiva dello sviluppo umano, in rapporto all’ambiente, alla evoluzione della specie e agli altri esseri che popolano il pianeta, è qualcosa di inedito e di impressionante per la facilità con cui viene esposta. A tal punto che il racconto di Harari potrebbe apparire fin troppo semplicistico e insoddisfacentemente generalizzante, come scrive il critico di “The Economist”. “Quando il lettore si ferma per pensare – scrive il magazine di Londra – Homo Deus appare improvvisamente meno convincente, la sua aura di seducente ipersicurezza svapora”. Può essere un’impressione che accade di provare di fronte a certe brillanti iperboli della narrazione, ma tutto l’impianto di Harari ha una sua fondatezza. 
 
Una provocazione o un scenario plausibile? 

Già il sottotitolo del libro, A brief history of tomorrow, mostra quanto non convenzionale sia il fuoco della ricerca di questo giovane storico. Tentare una storia del futuro è un’impresa che uno storico accademico tradizionale riterrebbe impossibile se non provocatoria e insultante per l’essenza stessa della disciplina fondata da Erodoto e Tucidide. Eppure Harari riesce a scriverla con parametri indiziari e può essere che davvero sia riuscito a creare uno scenario plausibile con i suoi modelli sullo sviluppo della società dominate dalla tecnologia e dall’informazione. 

Harari è uno storico di una nuova generazione che esce dai confini stretti della propria disciplina e non teme il confronto con la dimensione globale e caotica del mondo contemporaneo. È inoltre dotato di un’intelligenza empatica veramente fuori dal comune. Vegano di profonde convinzioni, se invitato a cena dalla madre o da un amico non respinge un dolcetto cucinato con le uova e il burro, specialmente se le uova sono di origine europea dove c’è il bando agli allevamenti in batteria delle galline ovaiole. Per questa sua capacità di considerare il principio del veganesimo in un contesto più generale, dichiara di essere “veganish” non “vegan”. Harari vive a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv insieme al marito e agente Itzik, ex-produttore teatrale, con cui si è coniugato in Canada perché in Israele non è consentito il matrimonio civile non solo per le coppie gay, ma anche per quello etero. Chi fosse incuriosito dalla personalità di Harari può trovare istruttivo leggere l’intervista rilasciata a John Reed del “Financial Times” pubblicata nel settembre del 2014 nella rubrica “Lunch with FT” del supplemento weekend “Life & Art”. 

Homo Deus è stato recensito e discusso da tutte le principali testate tradizionali e online. Tra le molte recensioni abbiamo scelto di proporvi quella di John Thornhill, innovation editor del “Financial Times”. La traduzione dall’inglese e di John Akwood. Buona lettura! 

Homo sapiens, il più brillante algoritmo del pianeta 

Molti libri che hanno cercato di prevedere il futuro hanno fallito – talvolta clamorosamente – poiché la storia raramente si muove lungo linee rette. Estrapolare i trend in voga e costruirci delle storie future è spesso fallace. 

Faremmo bene a sperare che anche l’ultimo libro di Yuval Noah Harari soffra di questo problema, perché il futuro che il giovane storico israeliano descrive è veramente inquietante, anche se egli stesso precisa che lo scenario che emerge dal libro – Homo Deus – è più una possibilità che una profezia. Meno male. 

Per 70mila anni l’Homo sapiens è stato il più brillante algoritmo del pianeta, come afferma Harari. Ma entro qualche secolo, se non decennio, ciò cesserà di essere vero poiché algoritmi biologici più efficienti lo renderanno obsoleto come modello biologico. Quando ciò avverrà, scopriremo di non essere più al vertice della civiltà. I computer ci conosceranno meglio di quanto noi stessi ci potremmo conoscere e la nostra presunta utilità sarà messa in discussione. “Quegli stessi parametri che ci hanno consacrati come esseri dominanti, ci condanneranno a unirci nell’oblio ai mammut e ai delfini di fiume”. Guardando all’indietro l’umanità risulterà un fremito nel flusso cosmico delle informazioni”. Solo pochi futurologi hanno l’audacia di scrivere quello che Harari scrive. Solo pochi hanno la capacità intellettuale e il mestiere letterario per delineare una tale monumentale sintesi di storia, filosofia, scienza e tecnologia. Gli specialisti cavilleranno parecchio sul trattamento un po’ sportivo di queste specializzazioni da parte di Harari. 

È però appassionante seguire questo autore di talento mentre spazia liberamente tra tante differenti discipline e specializzazioni. L’abilità di Harari è tutta nel modo in cui muove il prisma delle molte queste discipline per guardare al mondo e alla sua storia in modo diverso, suggerendo nuovi angoli di visuale su ciò che già pensavamo di sapere. A prescindere da quanto possa essere inquietante o parziale, il risultato è brillante. 

Ne uccide più lo zucchero che la polvere da sparo 

Nel suo precedente bestseller, Sapiens: A Brief History of Humankind, Harari corre a rotta di collo attraverso millenni di storia. Molti dei temi di questo libro sono ripresi nel nuovo: l’importanza della rivoluzione cognitiva e il potere della collaborazione nell’accelerare l’ascesa dell’uomo; il potere essenziale dei miti – come la religione e il denaro – nello sviluppo della nostra società, la imperdonabile crudeltà con cui la nostra specie tratta gli animali. Avendo esaurito la storia di cui parlare Harari adesso rivolge la sua attenzione alla storia del futuro. 

Homo Deus si apre con la celebrazione della straordinaria ingenuità dell’umanità e con le indiscutibili conquiste del nostro tempo. Per migliaia di anni l’agenda dell’uomo è stata dominata dai tentativi di vincere le carestie, le malattie e le guerre. Ma oggi, dice Harari, possiamo rivendicare, con cognizione di causa, di aver vinto la sfida con tali flagelli. “Per la prima volta nella storia la gente muore più di sovralimentazione che di penuria di cibo; sempre più persone?muoiono di vecchiaia che di malattie infettive e c’è più gente che si suicida di quella che viene uccisa in azioni di guerra, attacchi terroristici o atti criminali”, scrive. 

Harari mostra quanto velocemente sia cambiato il mondo. Nel 1974 la Conferenza mondiale sull’alimentazione di Roma dichiarò che la Cina sti stava dirigendo verso una catastrofe alimentare e che il suo governo non avrebbe mai potuto nutrire adeguatamente la popolazione del paese più popolato della terra. In realtà la Cina, architettando una sorta di miracolo economico e per la prima volta nella storia, è oggi libero dalla piaga della carestia. Questo non vale solo per la Cina. Oggi sappiamo come farlo ovunque, anche se alle volte manca la volontà politica. Nel mondo l’obesità ha ucciso 3 milioni di persone nel 2010 quando la carestia e la denutrizione ne ha uccise un milione. 

Una cosa simile è avvenuta con le malattie. Nel XIV secolo la pestilenza denominata Morte nera sterminò più di un quarto della popolazione dell’Eurasia. Le malattie portate dai conquistatori europei nelle Americhe e in Australia hanno ucciso il 90% della popolazione indigena. Nel 1520 in Messico morirono 22 milioni di persone. Le malattie e lo sfruttamento provocato dai conquistadores spagnoli ridussero la popolazione del paese a meno di 2 milioni nel 1580. La pandemia influenzale della Spagnola, che spazzò il mondo nel 1918, uccise da 50 a 100 milioni di persone. Oggigiorno, dice Harari, la maggior parte delle malattie sono state identificate e curate. “L’epoca nella quale l’uomo era impotente di fronte ai fenomeni naturale e alle epidemie è finita”, scrive.

Anche la pace è un’invenzione moderna. Nonostante si resti giustamente scandalizzati dagli orrori della guerra civile in Siria e dai pericoli del terrorismo, non abbiamo mai vissuto in tempi così tranquilli. Nelle società agricole primitive, la violenza dell’uomo era responsabile del 15% di tutti i decessi. Nel sanguinoso XX secolo le morti di questa natura sono scese al 5% e adesso si sono attestate intorno all’1 percento. Nel 2012 le persone morte violentemente sono state 620mila, quelle decedute a causa del diabete sono state 1 milione e mezzo. “Oggi lo zucchero è più pericoloso della polvere sparo”, conclude Harari. 

La felicità mondiale? Basta una pillola! 

Spettacolare! Tanto di cappello, uomo. L’umanità ha cessato di essere il giocattolo di Dio e ha preso in mano il controllo del suo destino. Essendosi sollevato dalla lotta bestiale per la sopravvivenza, può dedicarsi a un nuovo programma di sviluppo basato su una trinità di ambizioni: immortalità, felicità e divinità. “Possiamo adesso aspirare a sollevare l’uomo a Dio, e trasformare l’Homo sapiens in Homo deus”. 

Se l’aspettativa di vita è salita da 40 anni a 70 nel corso del XX secolo, allora potrebbe salire a 150 nel nostro secolo – con la prospettiva dell’immortalità da allora in poi. Questo cambierebbe la nostra intera prospettiva nel crescere le nuove generazioni e porterebbe anche a delle conseguenze inquietanti nella vita politica. “Potrebbe significare che tra 90 anni ci sarebbe ancora Putin in circolazione?”, si domanda Harari. “Se la gente avesse potuto vivere fino a 150 anni, allora nel 2016 avremmo sempre Stalin al governo, ancora nel pieno delle sue energie a 138 anni”. Ma non ha alcun senso vivere fino a quell’età se non possiamo goderci questa estensione di vita. A ciò si può porre rimedio inghiottendo delle pillole sempre più sofisticate – e personalizzate – o usando mezzi che tengano allenato e contento il cervello. “Dimentichiamoci della crescita economica, delle riforme sociali e delle rivoluzioni politiche: allo scopo di innalzare il livello di felicità globale abbiamo soltanto bisogno di manipolare la biochimica dell’uomo”. 

La nostra crescente padronanza delle macchine ci darà anche l’opportunità di mescolarci a robot e computer, trasferendoci così il potere e la facoltà degli dèi di creare nuove forme di vita. “Dopo 4 miliardi di anni di in cui la vita è scaturita dal regno dei composti organici, la vita potrà scaturire dalla vastità del regno dei composti inorganici, e prenderà delle forme al momento inimmaginabili”, scrive Harari. 

La nuova religione del Dataismo 

Sebbene tutto questo ci sembri magnifico come può essere solo il vivere in eterno e caricare i computer di tutti i lavori, Harari ci mostra, invece, come tutto questo può diventare orribilmente sbagliato dal momento che potremmo soccombere alla nuova religione dei Data-ismo, come la chiama lui. Un modo di interpretare la storia dell’umanità è quella di guardarla attraverso la lente del trattamento delle informazioni. L’Homo sapiens emerse come dominante perché il linguaggio e la sua capacità di cooperare gli davano la capacità di utilizzare le informazioni meglio degli altri animali. Il capitalismo sconfisse il comunismo perché la distribuzione delle informazioni si dimostrò ampiamente più efficiente del meccanismo di centralizzazione adottato dai paesi del blocco sovietico. 

Ma, che cosa succede quando i computer diventano molto più bravi degli umani nel trattare le informazioni più rilevanti? Succederà che un domani ci tratteranno come noi oggi trattiamo le galline? Harari evoca il pericolo per gli umani di diventare economicamente e militarmente inutili. Faremmo meglio a pregare che le conclusioni provocatorie di Harari siano sbagliate e che gli organismi viventi siano qualcosa di più degli algoritmi. 

La ricerca di Michael Bess 

Michael Bess è un altro storico che ha rivolto il suo sguardo al futuro. Make Way for the Superhumans, il suo libro, si sofferma sui benefici sorprendenti e i rischi spaventosi che la tecnologia comporta. Professore della Vanderbilt University, Bess si focalizza, più limitatamente di Harari, sulle promesse e sui pericoli dei miglioramenti bioartificiali. Spiega in modo chiaro gli ultimi sviluppi nel campo della farmaceutica, della bioelettronica e della genetica, così come di quelli che lui chiama le carte jolly: nanotecnologia, intelligenza artificiale, robotica e biologia di sintesi. 

Queste tecnologie promettono spettacolari risultati nella cura delle malattie e nell’accrescimento della capacità umane. Un giorno potrà apparire senza significato il tema dell’uomo contro la macchina, perché potremmo essere giunti a una sintesi tra le “le tecnologie dell’informazione e la robotica e, particolarmente se queste si svilupperanno in nanoscala, saranno direttamente assimilate dal corpo umano e alla fine non sarà più possibile distinguere tra noi e loro”. 

Ma Bess si mostra preoccupato dal cattivo uso di tale tecnologia e dalla iniqua distribuzione dei suoi benefici. Se si pensa che l’ineguaglianza oggi sia un fattore negativo, che cosa succederà quando avremo un “sistema di caste basato sulla biologia” in cui i ricchi potranno garantirsi un privilegio non accessibile ad altri. Né la fortuna, né il duro lavoro, né la perseveranza potranno rendere un individuo competitivo nei confronti di una casta di persone che si sono avvantaggiate in modo artificiale sul piano della salute, dell’aspetto, della conoscenza e sono strettamente connesse in modo bioelettronico alle macchine.

“Il rischio che queste tecnologie comportano sono potenzialmente catastrofiche nella loro essenza: ciò che è in gioco è l’integrità del nostro ordine sociale e in ultima istanza la sopravvivenza della nostra specie. Semplicemente non ci possiamo permettere di essere neutrali quando i pericoli potenziali sono così rilevanti”, scrive Bess. 

Si può fare già qualcosa? 

In maniera diversa, questi due libri eccellenti, stimolanti e provocatori mettono in luce l’impreparazione delle nostre società a confrontarsi con questioni così complesse. Ma Mess è il più ottimista e si fa carico anche di avanzare dei suggerimenti pratici. Sebbene il treno della tecnologia abbia già lasciato la stazione, possiamo ancora fare qualcosa per tracciare i suoi futuri percorsi. 

Egli indica, come esempio, i successi del Protocollo di Montreal del 1987 che sono un grande modello di cooperazione e solidarietà internazionale. Il trattato ratificato da 197 paesi ha avuto un ruolo vitale nel ridurre il rilascio di clorofluorocarburi alogenati emessi da aerosol e sistemi di refrigerazione che minacciano lo strato di ozono. 

Egli indica anche la conferenza di Asilomar del 1975 nella quale 140 scienziati definirono le regole basilari per la ricerca sul DNA recombinante come vademecum per l’autoregolamentazione. 

Allo stesso modo in cui gli attivisti ecologisti nel 1960 iniziarono a lanciare l’allarme sul degrado ambientale, oggi le persone consapevoli e informate devono iniziare ad agire e a battersi perché queste nuove questioni divengano parte dell’agenda politica dei governi. 

Per il momento l’ascesa del populismo, la traballante architettura dell’Unione Europea, il disordine del Medio Oriente e le controversie del Mar cinese meridionale, lasciano poco spazio nell’agenda politica per altre questioni. Presto però, le nostre società dovranno insieme diventare sempre più consapevoli di queste tecnologie emergenti e in fortissima accelerazione e riflettere attentamente sul loro potenziale uso. Giocare a Dio è un gioco pericoloso. Un gioco strano, l’unica mossa vincente è non giocare.

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