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Ha ancora senso tenere in vita la Borsa di Milano?

L’imminente fusione tra la Borsa di Francoforte e il London Stock Exchange solleva una domanda impietosa sull’utilità di mantenere una Borsa asfittica e marginale come quella di Piazza Affari – I numeri sono incontrovertibili: poco meno di 300 società quotate a Milano contro 650 di Francoforte, più di mille a Parigi e oltre 2.300 a Londra – E anche il confronto sulla capitalizzazione condanna la nostra Borsa

Ha ancora senso tenere in vita la Borsa di Milano?

L’imminente fusione “tra eguali” della borsa di Francoforte (che nel 2011 tentò una fusione con il NYSE bloccata dalla Commissione europea) con il London Stock Exchange di Londra sol-leva una domanda: ha ancora senso economico e finanziario mantenere operativa la periferica e asfittica Borsa di Milano? Anche per non dimenticare che quando (2007) la Borsa di Milano fu incorporata nel LSE, gli scambi si dimezzarono tra il 2007 ed il 2008, migrando su altre piattaforme di negoziazione. Accadrà nuovamente in occasione della fusione LSE con Franco-forte?

La marginalità della borsa italiana e la scarsa efficacia informativa dei prezzi che ivi si formano sono note da sempre nel confronto con quelle dei paesi dell’UE ad economia simile a quella italiana. Marginalità che non venne superata neppure dall’avvio, nei lontani anni 1992-93, della concentrazione degli scambi in borsa, quando il numero delle società ammesse alla quotazione di borsa erano appena intorno a 230, e come auspicato dalla politica economica per il potenziamento del mercato dei capitali che portò all’emanazione del Testo Unico di Finanza nel 1998. Un quarto di secolo da allora, i dati pubblicati dalla FESE- Federation of European Stock Exchange, confermano il permanere di tale marginalità in modo incontrovertibile: nel 2015 contro poco meno di 300 società quotate sul MTA di Milano, Parigi ne quotava più di mille e Francoforte oltre 650. Dal canto suo il LSE quotava oltre 2300 società. Si aggiunga, per completare il giudizio, che la marginalità e la scarsa attrattività della borsa italiana nei confronti delle altre piazze finanziarie è segnata anche dalla assenza di società estere ivi quotate.

Anche in termini di capitalizzazione di borsa il confronto non cambia di segno: nel 1997 la Deutsche Borse mostrava una capitalizzazione di borsa di 2,4 volte quella italiana, quella di Amsterdam di 1,4 volte; Parigi di 1,9 volte; Euronext di 3,8 volte; LSE di 5,9 volte. La sola borsa di Madrid era di 0,8 volte quella di Milano (vedi, www. FESE, Monthly statistics; www.Borsa italiana, serie statistiche). Un quarto di secolo dopo (2014), la capitalizzazione della borsa di Milano si è attestata sul valore del 30 per cento del Pil, ponendosi ancora una volta tra le più modeste della UE. Infatti, nello stesso anno, anche la borsa di Madrid ha supe-rato la Borsa italiana con una capitalizzazione di borsa superiore di 1,5 volte; la Deutsche Bor-se di 2,7 volte; Euronext di 5,3 volte; il NASDAQ Nordics & Baltics 1,9 volte; lo Swiss Ex-change 2,4 volte (dati FESE). Conseguentemente, la marginalità dell’’Italia in rapporto ai fon-di di capitali di rischio, ancora non le consente di appartenere al gruppo degli otto stati membri (Regno Unito, Germania, Svezia, Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi, Francia e Spagna) che de-tengono circa il 90 per cento di tali fondi (dati da CE, Libro Verde. Costruire un’Unione dei mercati dei capitali, Bruxelles, 18.2. 2015).

Dal canto suo, l’inarrestabile processo di innovazione tecnologica contribuisce alla marginalità degli scambi che avvengono sui mercati regolamentati italiani. Infatti, la quota delle negoziazioni condotte sui mercati regolamentati domestici si aggira soltanto nell’intorno del 52 per cento; quella sulle piattaforme estere regolamentate nell’intorno del 16 per cento, quella sui mercati non regolamentati (Over the counter) per circa il 30 per cento (dati Consob).

In siffatto contesto, che documenta la patologica carenza non di domanda, ma di offerta di titolo rappresentativi del capitale di rischio, potrebbe risultare conveniente per le imprese italiane quotate sulla modesta e periferica borsa valori italiana migrare su piattaforme di negoziazione europee (Euronext e Deutsche Borse, London Stock Exchange) più liquide, di maggiore spessore ed estese su di una maggiore gamma di titoli negoziati, traendone il vantaggio della maggiore efficacia informativa dei prezzi dei titoli negoziati, più significativi della realtà economica e finanziaria dell’emittente. Questi prezzi, a loro volta, sarebbero più rappresentativi del valore di mercato della impresa stessa. Ciò varrebbe auspicabilmente nel caso del valore di mercato delle numerose banche quotate sulla borsa italiana che così potrebbero liberarsi della retorica del pernicioso legame con il territorio.

In conclusione, a chi osserva l’operatività della borsa di Milano non può che tornare alla, mente quanto scrisse J.M. Keynes nella Teoria generale del 1936, ovvero che “Si è general-mente d’accordo sul fatto che i “casinos”, in nome del pubblico interesse, dovrebbero essere resi inaccessibili e molto costosi. E ciò vale ancho per gli Stock Exchanges” (J.M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money, MacMillan, p.159).

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