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Giovanni Falcone, 33 anni fa la strage di Capaci: il magistrato e l’uomo nel libro-intervista con Marcelle Padovani

A 33 anni dalla strage di Capaci pubblichiamo un estratto del prologo di “Cose di Cosa Nostra”, che raccoglie le interviste fatte a Giovanni Falcone dalla giornalista Marcelle Padovani. Una testimonianza preziosa che racconta il magistrato, il metodo Falcone, ma anche l’uomo

Giovanni Falcone, 33 anni fa la strage di Capaci: il magistrato e l’uomo nel libro-intervista con Marcelle Padovani

Trentatre anni fa moriva Giovanni Falcone. Erano le 17:58 del 23 maggio del 1992. Giovanni Brusca azionò il telecomando che provocò l’esplosione di 500 chili di tritolo sistemati in un cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada A29, nei pressi di Capaci. Il giudice palermitano, che viaggiava a bordo della sua Fiat Croma, venne ammazzato dalla mafia insieme alla moglie magistrata Francesca Morvillo e agli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro in quella che tutta Italia ricorda come la “strage di Capaci”.

Nel trentatreesimo anniversario della scomparsa, pubblichiamo un estratto del prologo della prima edizione di “Cose di Cosa Nostra”, libro pubblicato il 13 novembre 1991 per Rizzoli che raccoglie venti interviste fatte tra marzo e giugno dello stesso anno a Giovanni Falcone dalla giornalista francese Marcelle Padovani. Una testimonianza preziosa che racconta l’attività del giudice e l’ormai celeberrimo “metodo Falcone”, ma che permette anche di conoscere, attraverso il suo operato, il suo rapporto con i colleghi e persino con i pentiti, la persona che si nascondeva dietro il “magistrato pragmatico”, dietro quello che l’Italia considera un eroe che ha dato la sua vita per servire lo Stato. Un uomo che Padovani descrive come “allegro, pieno di humour e di gioia di vivere, che le difficoltà della vita non avevano reso né inquieto né angosciato”. “Un siciliano illuminista”, che fino al suo ultimo giorno non ha mai smesso di credere che la mafia può essere sconfitta.

Il prologo della prima edizione di “Cose di Cosa Nostra” di Marcelle Padovani

L’ho incontrato per la prima volta nel 1984 al tribunale di Palermo, dietro le sue porte blindate, protetto da un sistema di sorveglianza elettronico in funzione ventiquattro ore su ventiquattro. Rimasi colpita dalla chiarezza delle sue idee, dal livello delle informazioni in suo possesso, dalla sincerità del suo impegno antimafia. E da una specie di riserbo metodico: la consapevolezza di dover stare perennemente in guardia? La sua enorme capacità di lavoro e la sua abnegazione erano oggetto di ammirazione, a volte non disgiunta da una certa beffarda ironia. Per undici anni, comunque, è vissuto nell’atmosfera artificiale delle corti di giustizia, delle carceri, degli uffici superprotetti. Non usciva mai, vedeva il sole soltanto attraverso i finestrini blindati della sua Alfa Romeo. Davanti alla sua abitazione due poliziotti montavano la guardia giorno e notte. Alcuni inquilini avevano suggerito in una lettera al Giornale di Sicilia di riunire tutti i magistrati che costituivano un rischio per la sicurezza degli altri in una specie di fortino, magari una prigione…

Ho rivisto Falcone regolarmente per Nouvel Observateur, per un libro e per un film che abbiamo girato con il regista Claude Goretta nel 1987, alla conclusione del maxiprocesso. L’équipe televisiva l’aveva soprannominato Johnny e durante i due mesi delle riprese aveva condiviso le misure di sicurezza applicate dai poliziotti incaricati di proteggerlo: il suo nome non veniva mai pronunciato nella hall di un albergo o in un ristorante, per non fornire al “nemico” informazioni involontarie sulla sua persona e i suoi spostamenti. Ma, ciononostante, egli costituiva il nostro principale argomento di conversazione. Quando, alla fine, Johnny ci concesse un’intervista di quaranta minuti, scoprimmo un uomo diverso, allegro, pieno di humour e di gioia di vivere, che le difficoltà della vita non avevano reso né inquieto né angosciato. Un siciliano illuminista, da “Secolo dei lumi”, cosi diverso dal secolo di follia in cui viviamo. Uomo estremamente schivo, che evitava come la peste gli argomenti personali nel corso della conversazione. A poco a poco, ho imparato anch’io a esprimermi in una specie di linguaggio in codice, a interpretare le inflessioni di voce, a non chiedere e soprattutto a non dire mai troppo. Proprio come Falcone con i presunti mafiosi. O come i mafiosi tra loro, sempre sul chi vive nel loro quotidiano lavoro di decifrazione di segnali. È un’attività intellettuale appassionante, che dimostra la vacuità di lunghe digressioni e incoraggia a risparmiare parole: il verbo ha una tale carica di densità da corrispondere all’azione più plateale.

Siamo sicuri che Giovanni Falcone non voglia darci una lezione? Durante le venti interviste che costituiscono l’ossatura di questo libro, la solitudine di questo magistrato fuori del comune mi è apparsa ancora più evidente che non a Palermo. Ma la certezza della vittoria finale non l’ha mai abbandonato. L’opacità di un grosso ministero, le logiche della politica “politicante”, il machiavellismo dei “palazzi” romani non l’hanno tuttora distolto dalla sua idea fissa: lo Stato ha i mezzi per sconfiggere la mafia.

Falcone costituisce ancora un’anomalia nel panorama della magistratura italiana. È di famiglia borghese e conservatrice, residente nel centro di Palermo: padre funzionario alla provincia, madre molto religiosa che lo fa partecipare alla vita della chiesa. Da piccolo serve messa. Divenuto più grande, nutre una rispettosa nostalgia per la fede. Adolescente, si appassiona al canottaggio, prima di interrogarsi sul proprio avvenire: sarà medico o magistrato? In questo periodo si infiamma per uno scritto gonfio di retorica di Giuseppe Mazzini che più o meno recita: “La vita è missione ed il dovere è la sua legge suprema”. Quando parla oggi del padre, Falcone ne sottolinea la grande austerità: “Si vantava di non aver mai messo piede in un bar in tutta la vita”.

Accantonata la medicina, Falcone pensa a una carriera di ufficiale di Marina; fa domanda di iscrizione all’Accademia navale e, contemporaneamente, alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo. Alla fine il diritto avrà la meglio e nel 1964 Falcone supera il concorso per entrare in magistratura. Ricorda i sentimenti che provava e che in certa misura rimangono ancora oggi gli stessi: “Appartengo a quella categoria di persone che ritiene che ogni azione debba essere portata a termine. Non mi sono mai chiesto se dovevo affrontare o no un certo problema, ma solo come affrontarlo”.

Nutrito di principi spartani, non poteva accontentarsi del diritto civile, cui si dedicò nei primi anni della sua carriera. La sua vocazione era per quello penale. O meglio: per i processi contro la mafia. E come può essere altrimenti, in Sicilia, per chi è coerente con se stesso? I giornalisti di passaggio a Palermo hanno più volte cercato di scoprire come viveva, qual era l’intensità della sua paura quotidiana, se la vicinanza del pericolo gli procurava angoscia. Falcone ha sempre risposto con serenità: “Il pensiero della morte mi accompagna ovunque. Ma, come dice Montaigne, diventa presto una seconda natura. Certo, si sta sul chi vive, si calcola, si osserva, ci si organizza, si evitano le abitudini ripetitive, si sta lontano dagli assembramenti e da qualsiasi situazione che non possa essere tenuta sotto controllo. Ma si acquista anche una buona dose di fatalismo; in fondo si muore per tanti motivi, un incidente stradale, un aereo che esplode in volo, una overdose, il cancro e anche per nessuna ragione particolare”.

L’ironia sulla morte fa parte del retaggio culturale siciliano. Leonardo Sciascia ne era maestro. Falcone da parte sua racconta con un certo divertito compiacimento le battute del tempo del maxiprocesso. “Mi viene a trovare a casa il collega Paolo Borsellino. Giovanni, mi dice, devi darmi immediatamente la combinazione della cassaforte del tuo ufficio. E perché? Sennò quando ti ammazzano come l’apriamo?”. E ancora sorride se ripensa agli umidi pomeriggi afosi trascorsi con i colleghi del pool antimafia a scrivere i propri necrologi truculenti da pubblicare sul Giornale di Sicilia.

Falcone diventerà un magistrato da manuale, un servitore dello Stato che dà per scontato che lo Stato debba essere rispettato – non uno Stato ideale e immaginario, ma questo Stato, così com’è. Paradossalmente, cercando solo di applicare la legge, si è trasformato in un personaggio disturbante, un giudice che dà fastidio, un eroe scomodo. Dotato di una straordinaria capacità di lavoro e di una memoria da elefante, ha saputo sfruttare in modo intelligente la polizia, ha organizzato efficacemente la propria sicurezza personale. Si è circondato di persone qualificate. Si è dimostrato rigoroso all’estremo nell’esercizio del suo mestiere di inquirente: senza mai colpire obiettivi vaghi; senza mai imbarcarsi in alcuna iniziativa di cui non si fosse assicurato il successo; senza mai entrare in polemica personale con un presunto mafioso. Le operazioni “Pizza Connection”, “Iron Tower” e “Pilgrim”, condotte di concerto con gli inquirenti americani, e poi quel vero capolavoro che è stato il maxiprocesso del 1986, passeranno alla storia come esempio del “metodo Falcone”.

Si può tentare di ricostruire i rapporti tra questo magistrato pragmatico, alieno da qualsiasi astrazione ideologica, attento a rispettare le norme, concreto e riservato, con uno dei boss mafiosi, o un pentito, sottoposto al suo martellante interrogatorio. Insolenti o vittimisti, chiusi in un ostinato silenzio o violentemente contestatori, Falcone oppone loro una calma e una sicurezza di sé incrollabili. Niente sguardi di intesa, niente rapporti basati sul tu, ma nemmeno insulti: devono rendersi conto di trovarsi di fronte allo Stato. “Durante l’interrogatorio di Michele Greco, capo di Cosa Nostra a Palermo, ogni tanto ci dicevamo a vicenda: Mi guardi negli occhi!, perché entrambi sapevamo l’importanza di uno sguardo che si accompagna a un certo tipo di affermazione”.

Questo è l’asso nella manica di Falcone: siciliano, anzi – meglio – palermitano, ha trascorso tutta la vita immerso nella diffusa cultura mafiosa, come un altro siciliano qualsiasi e come un qualsiasi mafioso, e conosce perfettamente il lessico delle piccole cose, dei gesti e dei mezzi gesti che a volte sostituiscono le parole. Sa che ogni particolare nel mondo di Cosa Nostra ha un significato preciso, si riallaccia a un disegno logico, sa che nella nostra società dei consumi, in cui i valori tendono a scomparire, si potrebbe pensare che le rigide regole della mafia offrano una soluzione, una scappatoia non priva apparentemente di dignità, e ha di conseguenza imparato a rispettare i suoi interlocutori anche se sono criminali.

Talvolta ha scoperto in loro un’umanità insospettabile: “Che calore, che senso di amicizia quando ci siamo salutati con i pentiti Buscetta, Mannoia, Calderone”. E lo stesso Calderone dichiara ai giornali: “Ho collaborato con Falcone perché è uomo d’onore”. E, lasciata l’Italia per destinazione ignota nel tentativo di sfuggire all’immancabile vendetta di Cosa Nostra dopo le confessioni rilasciate alla magistratura, gli fa pervenire questa lettera straordinaria: “Signor giudice, non ho avuto il tempo di dirle addio. Desidero farlo ora. Spero che continuerà la sua lotta contro la mafia con lo spirito di sempre. Ho cercato di darle il mio modesto contributo, senza riserve e senza menzogne. Una volta ancora sono costretto a emigrare e non credo di tornare mai più in Italia. Penso di avere il diritto di rifarmi una vita e in Italia non è possibile. Con la massima stima, Antonino Calderone”.

Giovanni Falcone è stato stregato dalla mafia? In realtà è stato l’unico magistrato che si sia occupato in modo continuo e con impegno assoluto di quel particolare problema noto come Cosa Nostra. È il solo in grado di comprendere e spiegare perché la mafia siciliana costituisca un mondo logico, razionale, funzionale e implacabile. Più logico, più razionale, più implacabile dello Stato. Ma Falcone spinge il paradosso ancora più in là: di fronte all’incapacità e alla mancanza di responsabilità del governo, si è dovuto erigere a difensore di certi mafiosi contro lo Stato, soprattutto dei pentiti, vittime di vendette trasversali. Cosa Nostra uccide ad essi padre, madre, parenti e amici per avere rotto il fronte del silenzio ed essi hanno dovuto aspettare una legge del 1991 per poter beneficiare di un programma di protezione ufficiale, per aver diritto a vivere. A Falcone, quindi, è toccato di trovarsi dall’altra parte della barricata, a fianco di mafiosi ed ex mafiosi contro la barbarie dello Stato.

Ecco la situazione di questo singolare magistrato: meglio di chiunque altro può combattere la mafia perché la conosce e la comprende. Ma è poi tanto strano che un fanatico dello Stato come lui sia affascinato da Cosa Nostra proprio per quello che rappresenta di razionalità statale?

La mafia sistema di potere, articolazione del potere, metafora del potere, patologia del potere. La mafia che si fa Stato dove lo Stato è tragicamente assente. La mafia sistema economico, da sempre implicata in attività illecite, fruttuose e che possono essere sfruttate metodicamente. La mafia organizzazione criminale che usa e abusa dei tradizionali valori siciliani. La mafia che, in un mondo dove il concetto di cittadinanza tende a diluirsi mentre la logica dell’appartenenza tende, lei, a rafforzarsi; dove il cittadino, con i suoi diritti e i suoi doveri, cede il passo al clan, alla clientela, la mafia, dunque, si presenta come una organizzazione dal futuro assicurato. Il contenuto politico delle sue azioni ne fa, senza alcun dubbio, una soluzione alternativa al sistema democratico. Ma quanti sono coloro che oggi si rendono conto del pericolo che essa rappresenta per la democrazia?

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