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Fornero: “Crisi colpa anche di imprenditori”. Ma non è così: la svolta può arrivare solo dall’Europa

Il ministro Fornero dà la colpa della crisi, oltre che alla politica, anche agli imprenditori poco propensi agli investimenti – Il problema però è che l’austerity frena la domanda, e senza domanda non c’è crescita: è lo stesso errore in cui cadde Reagan nel 1981 – La verità è che ci sarà ripresa solo quando l’Europa concorderà politiche meno repressive.

Fornero: “Crisi colpa anche di imprenditori”. Ma non è così: la svolta può arrivare solo dall’Europa

All’indomani dei dati Istat, che danno ragione a chi aveva formulato le previsioni congiunturali meno ottimiste, il ministro del lavoro Elsa Fornero ha affermato che la responsabilità della situazione attuale non è solo della politica, “ma anche del credito e degli imprenditori stessi che devono avere un atteggiamento più volto all’investimento e alle aggregazioni che fanno economia di scala”.

Naturalmente, il tessuto imprenditoriale di un Paese è sempre migliorabile, e certamente lo è quello italiano, ma illudersi (e illudere) che la crisi possa finire per incanto se solo le imprese decidessero di investire di più fa a pugni non con la macroeconomia, ma con il buon senso.

In un’economia di mercato, l’impresa investe quando l’imprenditore è convinto di poter vendere il prodotto. E se anche il banchiere è convinto che il prodotto si venderà, arriva anche il credito. In una parola, ci vuole domanda. E le politiche d’austerità hanno avuto fin qui un solo effetto certo: l’abbattimento sistematico del reddito disponibile che le famiglie europee possono spendere.

Ricordo che anche Ronald Reagan provò a raccontare una cosa simile agli americani nel pieno della recessione del 1981 dicendo: “In America ci sono 12 milioni di imprese e 12 milioni di disoccupati. Se ogni impresa assumesse anche un solo disoccupato, la recessione finirebbe ora.”

Naturalmente, nessuno seguì il consiglio del presidente e la recessione continuò a mordere. Ma due anni dopo, quando la riduzione delle tasse si sommò ad un massiccio aumento delle spese militari contro l’Impero del Male, la recessione finì. Il presidente che aveva fatto del pareggio di bilancio la parola d’ordine per battere Carter innescò il maggior disavanzo americano del dopoguerra, a cui seguirono tassi di crescita dell’economia tra il 2.5 e il 6% e, udite udite, la diminuzione del rapporto deficit/pil.

Strigliare gli imprenditori per eccesso di cautela in una delle più lunghe e peggiori crisi del dopoguerra rivela un’emergente debolezza della politica del governo. Tanto varrebbe dire la verità agli italiani: la crescita verrà quando l’Europa concorderà politiche fiscali meno repressive.

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