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Flessibilità, non precarietà del lavoro

Un mercato del lavoro flessibile richiede un sistema efficiente di politiche attive per chi cerca lavoro e per chi lo perde: in caso contrario la flessibilità si trasforma in precarietà del lavoro – Un lavoratore flessibile negli Stati Uniti, a maggior ragione oggi a crisi superata, è una persona forte nel mercato, e può scegliere.

Flessibilità, non precarietà del lavoro

Tutti i centri di previsione (pubblici e privati, nazionali ed internazionali) stimano ormai che la debolezza del ciclo economico permarrà in Italia anche per il prossimo biennio.

La Bce nel suo ultimo bollettino mensile conferma la prospettiva di un lento recupero, ma ribadisce anche che la disoccupazione resta elevata e che le mancate riforme strutturali, a partire da quella del mercato del lavoro, continueranno a pesare sul ritmo della ripresa.

La lunga fase di crisi e la doppia recessione, con il deterioramento del mercato del lavoro hanno indebolito anche le potenzialità di sviluppo : le gravi incertezze circa le prospettive occupazionali (soprattutto per i giovani, le donne e nel Mezzogiorno), le depresse aspettative per la domanda futura, le magre attese sul fronte degli incrementi del salario reale spingono a rivedere in peggio i piani di consumo per le famiglie e i piani di investimento per le imprese.

Occorrono dunque azioni forti a sostegno del mondo del lavoro e della produzione perché è da qui che possono innanzitutto arrivare energie e capacità per ridare un futuro al nostro Paese : è indispensabile un profondo e radicale cambiamento culturale nella politica, nei sindacati, tra gli imprenditori, che riconosca al lavoro, al talento e al merito il valore, individuale e collettivo, che è loro attribuito dai modelli sociali occidentali.

La armonizzazione delle regole del mercato del lavoro e del diritto del lavoro con quelle perlomeno dei paesi europei continentali è in questo senso una azione prioritaria.

Negli ultimi vent’anni i Governi, di qualsiasi composizione politica o tecnica fossero, non potendo rimuovere l’ostacolo della flessibilità del lavoro in uscita (la reintegrazione obbligatoria ex art. 18), hanno cercato, prima con la legge Treu, poi con la Biagi e da ultimo con la stessa Fornero, di flessibilizzare il rapporto di lavoro in entrata ampliando le tipologie dei contratti temporanei o a scadenza predefinita, il cui numero è peraltro di difficile quantificazione, variando da una quindicina conteggiati da Confindustria alla quarantina calcolati dalla Cgil.

Un mercato del lavoro flessibile richiede però un sistema efficiente di politiche attive per chi cerca lavoro e per chi lo perde: in caso contrario la flessibilità si trasforma in precarietà del lavoro.

Un lavoratore flessibile negli Stati Uniti, a maggior ragione oggi a crisi superata, è una persona forte nel mercato, è un lavoratore che acquisisce nuove competenze ogni volta che cambia lavoro, è una persona che può scegliere.

In Italia un lavoratore flessibile, o per meglio dire un precario, è una persona che si sente debole e che nel fatto di cambiare lavoro non vede possibilità di crescere ma solo il rischio di restarne privo.

Se è vero che i posti di lavoro non si creano per decreto, né si mantengono in vita le aziende con i sussidi, ma è necessaria, come tutti dicono, la crescita, si devono peraltro creare quelle pre-condizioni del mercato del lavoro che possano non far perdere il treno della ripresa, attraendo nuovamente gli investimenti o fermando la desertificazione del nostro sistema manifatturiero. 

Per far svanire nei giovani precari il senso di incertezza nel futuro e la convinzione che il lavoro è un luogo dove la fortuna o l’appartenenza contano più di altre cose, si deve in particolare riequilibrare un sistema laburistico oggi caratterizzato dalla dualità tra la temporaneità dei precari, in particolare giovani, e la iperprotezione dei lavoratori pubblici o privati con contratto a tempo indeterminato, riducendo da un lato i garantismi del contratto a tempo indeterminato e, dall’ altro, migliorando la rete di salvataggio del welfare.

In questo senso,nell’ ambito del lavoro del settore privato, e perché non anche del pubblico impiego , la prevalenza dovrebbe essere data al contratto a tempo indeterminato, così da dare fiducia e motivazione soprattutto ai giovani, ma con la possibilità di risoluzione per giustificato motivo tipizzato (togliendo discrezionalità ai giudici) con il riconoscimento di una indennità proporzionale alla durata del rapporto di lavoro. La tutela reale della reintegrazione sarebbe prevista solo nel caso di licenziamenti discriminatori.

L’ introduzione del nuovo contratto a tempo indeterminato dovrebbe inoltre semplificare o ridurre, se non addirittura eliminare, le varie forme contrattuali di lavoro temporaneo, tranne poche eccezioni come il lavoro interinale, l’ apprendistato o il contratto a termine su casi specifici, come ad esempio la sostituzione per maternità. 

Ma il passaggio da una cultura del lavoro fisso ad una cultura del lavoro flessibile può essere fatto solo se contemperato da scelte precise che aumentino nei lavoratori il senso di sicurezza. Sarà pertanto necessario definire e applicare politiche attive per chi cerca lavoro e per chi lo perde, assicurando servizi efficienti di informazione e adeguate iniziative di formazione, sistemi di reddito contro la disoccupazione e un quadro moderno di ammortizzatori sociali.

In questo contesto e con la semplificazione annunciata di quel groviglio inestricabile di leggi sul lavoro e relative leggine, regolamenti e circolari, il nostro diritto del lavoro dovrà inevitabilmente spogliarsi dei retaggi del passato come il diritto al posto di lavoro per ricercare nuove vie come il diritto alla formazione permanente o all’impiegabilità, l’ unica vera tutela che il lavoratore dovrà esigere in un futuro sempre più caratterizzato da una vita lavorativa spezzata tra lavoro e ineludibile aggiornamento professionale.

Tocca ora a Matteo Renzi e al suo governo far seguire i fatti alle parole del suo Jobs Act. 

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