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Filippo Cavazzuti: le privatizzazioni degli anni ’90, come sono nate e come sono realmente andate

UN SAGGIO DI FILIPPO CAVAZZUTI – Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo l’introduzione e le conclusioni di un saggio inedito di un protagonista delle privatizzazioni degli anni ’90 come l’ex sottosegretario di Ciampi al Tesoro che comparirà nel quarto volume della Storia dell’Iri in corso di pubblicazione da Laterza

Filippo Cavazzuti: le privatizzazioni degli anni ’90, come sono nate e come sono realmente andate

1. Uno sguardo d’insieme

1.1. …. La temuta insostenibilità del debito pubblico italiano sostenne agli inizi degli anni ’90 l’adozione delle politiche delle privatizzazioni ancorché il contributo dei proventi delle privatizzazioni alla riduzione dello stock del debito fosse alquanto incerto da prevedere e stimare. Ma un’accorta politica delle privatizzazioni contribuì, non tanto a ridurre lo stock del debito, quanto a ridurre i tassi d’interesse sul debito stesso e per questa via la spesa pubblica per interessi passivi ed il disavanzo primario. Il 1993 fu il punto di svolta (Fig.1) che segnò che la spesa per interessi passivi iniziò a decrescere in percentuale del Pil. Dal canto suo lo stock del debito pubblico (in rapporto al Pil) si stabilizzò nell’anno 1994 per iniziare una lenta discesa a partire dal 1995.

1.2. Nonostante l’esatta definizione di privatizzazione e delle sue forme tecniche variasse già allora sensibilmente da paese a paese, nel corso degli anni ottanta del 1900 la parola privatizzazione (secondo alcuni apparsa per la prima volta in un dizionario di lingua inglese nel 1983) divenne d’uso comune nel linguaggio politico. Si narrava allora che se le idee politiche fossero state tutelate dal diritto d’autore, Margaret Thatcher ed il suo governo (1979-1990) avrebbero scritto un best seller internazionale a favore del “capitalismo popolare” come allora si sosteneva. Ma vi fu anche chi preso da furore ideologico che lo portò a confondere il fine con lo strumento, andò ben oltre spingendosi a sostenere le privatizzazioni al pari di un “nuovo credo economico”; com’ebbe a dire uno stretto collaboratore del governo conservatore guidato dalla stessa Thatcher . Nel caso dell’Italia – sebbene l’ultimo decennio del novecento avesse compreso i ruggenti anni novanta durante i quali si è assistito (ricorrendo alle parole di Stiglitz) a una battaglia ideologica tra coloro che auspicano un ruolo minimalista dello Stato e chi invece ritiene che il governo debba svolgere un ruolo importante” – si può convenire che non vi fu battaglia ideologica, anche perché era ampiamente condiviso il giudizio che ”manca in Italia qualsiasi indicazione reale di tendenza al neoliberismo, sull’esempio britannico”. Era convinto invece che infuriasse una battaglia ideologica contro l’impresa pubblica il Presidente dell’Iri Nobili che sostenne – riecheggiando il dibattito che si svolse ai tempi dell’Assemblea Costituente a favore dell’economia mista – che le proposte all’esame del parlamento nel 1991 sul ruolo e sulle prospettive delle imprese pubbliche non soltanto fornivano “visioni distorte dei fatti”, ma adottavano una “impostazione che è tanto più deleteria nel momento in cui si vuole ripensare il significato della presenza dello Stato nell’economia. In certe recenti iniziative scorgo un qualche fumus persecuzionis verso le imprese a partecipazione statale, il desiderio di strappare un facile applauso cavalcando discorsi di moda ”. Non stupisce dunque che già all’avvio del dibattito sulla opportunità della trasformazione d’imperio dell’Iri da ente pubblico economico a società per azioni, le resistenze del Presidente dell’Iri Nobili fossero assai forti.

1.3. Il dibattito che seguì, alimentato dai vertici dell’istituto (presidenza Tedeschi) fino alla seconda metà degli anni novanta (governo Prodi) interessò il destino da riservare all’Iri spa, una volta che fossero state completate tutte le dismissioni delle società partecipate. A questo fine, i vertici dell’istituto proposero che all’Iri spa fosse affidato un “nuovo ruolo” in Italia, per evitarne la liquidazione. Il “nuovo ruolo”, confacente alla visione dell’economia mista dei vertici dell’Iri, consisteva nell’ utilizzare le esperienze e le capacità presenti in Iri che avrebbe dovuto “configurarsi come un organismo deputato a svolgere, per conto dello stato, il ruolo di privatizzatore di quelle realtà che progressivamente, in funzione di un ridisegno delle modalità di presenza ed intervento del pubblico in economia, si intendesse cedere, complessivamente in parte, sul mercato”. Ipotesi quest’ultima non percorribile poiché avrebbe richiesto il rafforzamen-to patrimoniale dell’Iri stesso in violazione dell’accordo Andreatta Van Miert siglato nel luglio 1993, di cui diremo più avanti. Si configurò allora una “doppia sfida”, per usare l’espressione che il Presidente dell’Iri spa Gros Pietro utilizzò nel 1997: privatizzare tutto per chiudere un epoca storica che finisce con la restituzione al mercato di molte aziende, ma anche valorizzare e riutilizzare le competenze dell’Iri per non disperdere il suo patrimonio professionale “cercando di vendere al meglio alla luce di un coerente disegno di politica industriale” . Invece, come si vedrà, la “doppia sfida” fu persa e la politica delle privatizzazioni fece si che i vertici dell’ istituto diventassero, di fatto, dei commissari liquidatori; così come confermerà nel 2001 Piero Ciucci: “nel corso degli anni novanta, l’Iri si è di fatto trasformato in una merchant bank atipica (…) è diventato un esperto venditore di grandi aziende”, anche a molti acquirenti esteri che occuparono il posto lasciato libero dagli investitori privati domestici

1.4. Le condizioni di instabilità finanziaria dell’economia italiana, l’urgenza del risanamento della finanza pubblica, insieme a quello finanziario degli enti economici pubblici e alla liquidazione dell’Iri posero in secondo piano l’importanza di accompagnare le privatizzazioni delle imprese pubbliche con un disegno di politica industriale, con la liberalizzazione dei settori protetti dalla concorrenza in cui operavano le stesse imprese e, soprattutto, che tenesse in conto dell’incombente allargamento del mercato domestico a quello comunitario internazionale su cui già operavano imprese di grandi dimensione. Rimasero così insoddisfatte le richieste di coloro che intravedevano nelle privatizzazioni e nel mercato degli assetti proprietari non soltanto uno strumento per il risanamento delle finanze pubbliche (e dell’Iri in particolare) e per lo sviluppo dei mercati finanziari, ma anche una occasione da cogliere per il rafforzamento del tessuto industriale italiano nei con fronti dei competitori stranieri e per evitare la formazione di nuovi monopoli. E’ però vero che se il sistema politico fu obbligato dalla progressiva internalizzazione dei mercati finanziari e dalla minaccia di crisi finanziaria interna a concentrarsi con determinazione sulla soluzione dei problemi finanziari ereditati dal passato che incombevano nel loro presente, va anche ricordato che in occasione delle privatizzazioni “è stata soprattutto la mancanza di capacità progettuale da parte delle grandi imprese private italiane, la loro indisponibilità a presentare pro-poste di riorganizzazione del sistema nazionale di impresa (…) a impedire che le risorse non spese dagli italiani trovassero una collocazione strumentale ad una modernizzazione del sistema produttivo italiano, proprio mentre nel resto del mondo tale trasformazione stava avvenendo a grande velocità”. Nel corso delle privatizzazioni, molti “poteri forti” preferirono rifugiarsi nel settore domestico per erogare servizi di pubblica utilità protetti dalla concorrenza interna ed internazionale, come l’editoria, gli aeroporti, le Autostrade, le telecomunicazioni, la ristorazione, caso mai anche protetti dai “poteri speciali” antiscalata attribuiti al Ministero del Tesoro oppure dalla mancata costituzione della autorità di regolazione del settore (come nel caso dei trasporti). E così le privatizzazioni non furono colte dall’imprenditoria privata per mantenere l’industria manifatturiera italiana al posto che deteneva in Europa alla fine degli anni ottanta. Ma gli spazi lasciati vuoti dagli investitori italiani furono rapidamente occupati da acquirenti stranieri: tra il 1992 ed il 2000 su circa 40 dismissioni di aziende cedute con tecniche diverse da quella del collocamento sul mercato e per importi superiori a cento miliardi di lire, circa la metà furono cedute ad acquirenti esteri nei settori alimentare, siderurgico, dell’alluminio, chimico, meccanico, elettromeccanico, delle telecomunicazioni, dell’impiantistica, ecc.. Gli incassi dalle cessioni che hanno condotto al passaggio della quota di comando dagli enti pubblici ad investitori stranieri hanno rappresentato circa un terzo del totale degli incassi dalle cessioni del controllo.

15. Concludendo.

L’urgenza degli impegni assunti in sede internazionale di uscire dalla condizioni di instabilità finanziaria, fece si che i governi Ciampi, Dini e Prodi (che operarono nel corso del quinquennio aprile 1993 – ottobre 1998, interrotti dal governo Berlusconi del 1994) fossero quelli che realizzassero le più importanti cessioni di imprese pubbliche.Tali cessioni contarono per una quota pari al 62% del totale del decennio 1992-2001. Annoterà invece (aprile 1995) “Business International”, che “la posizione palesemente negativa nei confronti delle privatizzazioni di alcuni dei principali esponenti del governo Berlusconi, all’indomani dell’avvio dei programmi di dismissione non ha certo riscontrato apprezzamento nei mercati, anzi ha contribuito a far si che le operazioni già avviate si trasformassero in un insuccesso”. Fino alla metà degli anni novanta, le cessioni delle società controllate dall’Iri spa svolsero un ruolo assai importante rispetto alle cessioni delle partecipazioni detenute dal Tesoro o dall’Eni, contribuendo così ad innescare il circolo virtuoso che porterà all’Unione monetaria Europea. Tra il luglio 1992 (data della trasformazione in spa dell’Iri) e la prima metà del 1995, le privatizzazioni, alla luce dell’ accordo Andreatta Van Miert, ammontarono a circa 13 mila miliardi di lire provenienti dai settori bancario, siderurgico, alimentare e ristorazione/grande distribuzione.

Rilevante fu il contributo (29-30%) che le dismissioni delle imprese del gruppo Iri hanno dato agli incassi delle privatizzazioni, soprattutto nei primi anni di avvio della politica delle privatizzazioni. Nell’arco di tempo 1992-1995 il gruppo Iri fornì un volume di incassi assai simile a quello fornito dalle dismissioni delle partecipazioni detenute direttamente dal Tesoro. Per le dismissioni dell’Iri si possono considerare due periodi e nel complesso, i dati raccolti lasciano intendere che vi fu una sorta di staffetta tra il Tesoro e l’Iri.

Quest’ultimo alienò quasi un terzo delle proprie partecipazioni entro il 1995 innescando il processo delle privatizzazioni; fu poi seguito dal Tesoro che nello stesso periodo alienò non più del 10 per cento del proprio portafoglio azionario. Si può concludere, che appare verosimile che l’Iri (a futura memoria e a suo onore) – nata sulle ceneri dell’imprenditoria privata industriale e finanziaria – e dopo avere contribuito allo sviluppo dell’economia italiana nel dopoguerra, abbia svolto il ruolo di vittima sacrificale sull’altare dei mercati finanziari per consentire con successo di raggiungere l’obiettivo dell’ entrata dell’Itala nella Unione Monetaria Europea: nel bene della stabilità finanziaria, nel meno bene del ridotto peso dell’industria manifatturiera italiana risultante nella stessa Unione Europea.

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