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Fiat, il contratto lacera i sindacati ma vanno evitati radicalismo e Porcellum in fabbrica

Le parti sociali rischiano di pagare i contrasti che ne dividono le diverse componenti con un declino tale da minare le loro stesse basi – Un movimento sindacale che non riesce più a trovare un accordo su nulla, a cominciare dalle procedure, è condannato a scontare un’inevitabile perdita d’influenza.

Fiat, il contratto lacera i sindacati ma vanno evitati radicalismo e Porcellum in fabbrica

Chi fosse passato davanti alla sede dell’Unione Industriale di Torino lunedì scorso, all’avvio della trattativa per il nuovo contratto del Gruppo Fiat, avrebbe dovuto registrare una situazione alquanto singolare, anche per le pur anomale relazioni industriali italiane. Si fronteggiavano due gruppi di dipendenti Fiat, l’uno formato da iscritti e militanti delle organizzazioni sindacali che hanno accettato e sottoscritto gli accordi aziendali di Pomigliano d’Arco e di Mirafiori, l’altro composto soprattutto dagli aderenti dei Cobas.

I due gruppi erano separati e tenuti a distanza da un cordone di forze di polizia. Fin troppo facile riscontrare che una lacerazione così acuta, almeno per quanto attiene alle forme della vita sindacale, alla Fiat non si è mai registrata, nemmeno durante i durissimi anni Cinquanta, quando la fabbrica era dominata dalla cornice della guerra fredda. Non ci sono quasi più testimoni diretti di quei tempi e di quelle vicende e l’eco di uno scontro frontale che rifletteva la contrapposizione dei blocchi di Usa e Urss si è spenta da decenni.

Dunque, davanti a una scena come quella ripresa dai telegiornali di lunedì scorso, si sconta di primo acchito quasi un senso di incredulità. E poi ci si chiede come sia potuto accadere che il conflitto fra la Fiom-Cgil e gli altri sindacati abbia potuto radicalizzarsi a questo modo, tanto a far apparire improbabile una possibilità di conciliazione, magari almeno sulle regole del confronto, se non sugli indirizzi contrattuali.

La prima constatazione che la situazione attuale richiama è che il sindacato – e proprio la sua anima industriale, che ne dovrebbe rappresentare l’espressione più vivace e dinamica – rischia di pagare i contrasti che ne dividono le diverse componenti con un declino tale da minare le sue basi. Un movimento sindacale che non riesce più a trovare un accordo su nulla, a cominciare dalla procedure, è condannato a scontare un’inevitabile perdita d’influenza.

Andando avanti di questo passo, sarà la rappresentanza dei lavoratori nel suo complesso a non incidere più e a essere relegata in una funzione marginale della vita di fabbrica. Nell’ultimo anno e mezzo, quanto è avvenuto negli impianti automobilistici della Fiat (e si sta per estendere al resto del Gruppo) mostra una contraddizione insanabile. Le sue premesse, naturalmente, risalgono alla storia sindacale degli ultimi venti-trent’anni in cui le occasioni di dissidio sono state ben più numerose dei momenti di unità.

Ma per un lungo periodo la crisi latente fra le organizzazioni è stata mantenuta sotto traccia, contenuta in un quadro che le permetteva di non esplodere. In seguito, il cambiamento che Sergio Marchionne ha impresso con l’alleanza e la fusione tra Fiat e Chrysler ha cambiato le cose di colpo, introducendo la globalizzazione entro la struttura delle relazioni industriali. La questione della “esigibilità” degli impegni contrattuali ha fatto da detonatore.

In un’impresa globale come quella che sta costruendo Marchionne, gli spazi per politiche autonome nel campo delle relazioni industriali si vanno fortemente restringendo, mentre predomina la volontà di omogeneizzare l’organizzazione produttiva e, con essa, le forme che regolano la prestazione di lavoro. In una simile cornice, l’impresa tratta più facilmente con un sindacato unico o almeno unitario, in grado di far valere il pieno rispetto degli accordi che firma. Ciò confligge fortemente con un pluralismo sindacale disordinato qual è quello italiano.

Di qui la spinta aziendale a disciplinare i comportamenti delle rappresentanze dei lavoratori. Ma, come si è visto, la Fiom-Cgil è irriducibile a una politica che, a suo modo di vedere, contrasta con la sua missione e il suo statuto di sindacato di classe. Essa dunque ritiene di non poter sottoscrivere alcuna intesa che leda questi caratteri. Dall’altra parte, organizzazioni come la Fim-Cisl e la Uilm hanno accettato lo schema contrattuale aziendale, impegnandosi per farlo riconoscere dai lavoratori.

A questo punto si è giunti alla stretta finale: l’accordo Fiat sarà un contratto che riprende il nucleo dei contratti di Pomigliano d’Arco e di Mirafiori con alcuni aggiustamenti. Il nuovo contratto però introduce un cambiamento radicale nella rappresentanza interna. Sostituisce alle Rsu le vecchie Rsa, originariamente previste dallo Statuto dei Lavoratori, che non sono però elette dai dipendenti dei vari stabilimenti, bensì designate dalle organizzazioni sindacali. Per giunta, a ogni sindacato che abbia sottoscritto il contratto toccheranno due rappresentanti, indipendentemente dal numero di iscritti. La Fiom, che non ha siglato gli accordi, resterà invece esclusa.

La diatriba fra i sindacati ha raggiunto qui il suo apice. La Fiom denuncia le altre organizzazioni, tacciandole di aziendalismo e accusandole di fungere da braccio armato dell’azienda. Per Fim e Uilm è la Fiom che si esclude da se stessa, rifiutandosi di riconoscere i contratti. Comunque si giudichi la vicenda, è chiaro che essa è approdata a un punto morto. Al di là della veemente polemica della Fiom, il problema della rappresentanza e della sua natura rimane effettivamente aperto. I sindacati firmatari degli accordi Fiat non possono limitarsi a designare i loro rappresentanti senza un passaggio elettorale.

Non è auspicabile una edizione sindacale del “Porcellum”, che crei una casta di rappresentanti sindacali d’azienda che rispondono esclusivamente alle segreterie delle organizzazioni da cui sono stati espressi. In America, dove il sindacato è pienamente responsabile dei contratti che sigla, ci sono delle verifiche elettorali regolari. Le rappresentanze di fabbrica sono tenute alla disciplina contrattuale, ma sono elette da organismi dove vige una radicata sensibilità democratica. Nel clima di scontro dominante, i sindacati che hanno scelto la via della cooperazione aziendale non devono cedere alla tentazione di premiare i membri più fedeli dando loro un mandato senza controllo di rappresentare i lavoratori in azienda.

L’impresa, come si è visto, ha di fatto trasferito il conflitto alla controparte. Ma forse nemmeno essa può restare del tutto indifferente al tema della rappresentanza: se chiede più coinvolgimento ai dipendenti, lo può fare a patto di avere di fronte un interlocutore rappresentativo. Altrimenti corre il pericolo di trovarsi domani di fronte a uno stato di disaffezione tale da inquinare il clima sociale in fabbrica, particolarmente delicato quando vengono introdotti rilevanti cambiamenti organizzativi. Insomma, la questione della democrazia sindacale resta sul tappeto, soprattutto se si vuole dare luogo a un nuovo corso delle relazioni industriali.

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