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Eni, conti in bilico e battaglia per vendere la chimica

Oggi a Roma manifestazione dei sindacati chimici con i segretari di Cgil, Cisl e Uil a distanza di una settimana dalla presentazione del preconsuntivo 2015 del Cane a sei zampe. Dopo il rosso del terzo trimestre e il petrolio a 30 dollari il gruppo va avanti con le dimissioni e con i tagli dei costi, senza ridurre gli investimenti sullo sviluppo dei giacimenti già scoperti. Versalis in uscita per portare avanti i programmi nella chimica verde

La chimica Eni scende in piazza con sciopero nazionale e manifestazione a Roma, ad una settimana esatta dalla pubblicazione dei conti 2015 del colosso energetico nazionale. La presidente Emma Marcegaglia e l’Ad Claudio Descalzi riuniscono infatti il consiglio d’amministrazione il 25 febbraio e annunceranno i dati il giorno successivo. Lo scenario atteso è che si confermi la tendenza già delineata nel terzo trimestre, chiuso con un rosso di 360 milioni nonostante la produzione in crescita e le stime annue riviste in rialzo “al 9% da oltre il 7%” come indicava l’ultimo report dell’azienda a chiusura dei primi nove mesi. Guardando ai dati adjusted presentati a fine ottobre, il greggio in picchiata ha portato a una perdita trimestrale di 257 milioni che ha eroso l’utile dei nove mesi a 530 milioni (erano 3,2 miliardi nel 2014): un crollo verticale, difficile da ribaltare nel quarto trimestre quando il petrolio da 50 dollari è sceso a 30.

Da allora, Shell e Bp hanno chiuso l’esercizio con un taglio dell’utile dell’87% nel primo caso e un rosso record (6,4 miliardi di dollari) nel secondo, accompagnati dall’annuncio ai primi di febbraio, rispettivamente, di 10 mila e 7 mila tagli occupazionali in arrivo.

Non risulta che Eni abbia analoghe intenzioni, per fortuna. E d’altronde la strategia messa a punto da Descalzi – tagliare i costi ma non quelli destinati alla produzione e allo sviluppo dei giacimenti scoperti, concentrarsi sul core business e procedere sulla via delle ristrutturazioni e dismissioni – gli è valsa a fine gennaio il giudizio Buy  di Goldman Sachs e Akros, Hold di Hsbc e  Equita, più isolato l’Underweight di Morgan Stanley. Gli analisti rivedono al ribasso le loro stime ma considerano l’Eni un titolo solido e quindi invitano a comprarlo o a tenerlo.

La chimica è al centro del programma di dimissioni Eni e non è un caso. Sulla chimica, appesantita dai tanti crack del passato (Sir, Liquichimica, Enimont, tutti scaricati sull’Eni) è stata riversata negli anni una montagna di denaro che non è riuscita però a riportarla ai fasti dei tempi di Mattei. E l’Eni, dal 2000 ad oggi, ha bruciato 5,8 miliardi nonostante i tentativi di ristrutturazione più volte tentati. Ora, con “la lunga notte del petrolio” che secondo uno dei grandi esperti del settore, Leonardo Maugeri, potrebbe durare fino al 2017 o 2018,  flussi di questo genere non sono più sostenibili. Tanto più che per finanziare lo sviluppo di Versalis, controllata Eni 100%, sono programmati 1 miliardo e 200 milioni di investimenti nei prossimi tre anni per consolidare il passaggio alle produzioni verdi più promettenti. Un impegno che l’Eni da solo non intende più affrontare. Da qui la decisione di vendere il 70% e la trattativa avviata con il fondo Sk Capital. 

I sindacati sanno che si sta decidendo, probabilmente, la definitiva uscita dello Stato dalla chimica di base e hanno hanno aperto una dura battaglia contro la messa in vendita di Versalis. Dopo un primo sciopero generale del gruppo petrolifero un mese fa, dopo blocchi stradali e una lettera appello al presidente Mattarella, oggi (venerdì 19 febbraio) si replica con manifestazione a piazza Santi Apostoli cui parteciperanno i segretari di Cgil, Cisl e Uil. “Versalis può svolgere un ruolo fondamentale in questo settore, affidarlo a mani straniere è pericoloso per il destino dell’industria italiana. Non solo, così l’Eni diventerà sempre più una multinazionale estranea al Paese”, non si stancano di ripetere i sindacati che non ritengono Sk Capital sufficientemente “robusto” per reggere un boccone così impegnativo come Versalis. Si tratta del fondo di private equity dell’ingegnere di origini iraniane Barry Siadat, che da New York amministra risorse di terzi per 1,5 miliardi di dollari e  ha una decina di partecipazioni in altrettante società nel settore chimico con 8 miliardi di fatturato e circa 9 mila occupati. 

“Per cinque anni Versalis resterà nel suo perimetro, per tre anni non ci devono essere tagli al personale, l’Ad deve restare quello attuale (Daniele Ferrari, ndr) e Versalis deve restare italiana” si è sforzato di rassicurare Descalzi, elencando a più riprese i paletti imposti nella trattativa. Il momento per vendere è quello giusto,  proprio ora la chimica è tornata in attivo (+172milioni l’utile operativo dei nove mesi) beneficiando, come la raffinazione, dei bassi costi delle materie prime. Sarà Sk Capital l’acquirente che dà maggiori garanzie? Ci sono potenziali altri acquirenti o l’alternativa rischierebbe di essere peggiore? Il ministro dello Sviluppo Guidi ha incontrato Siadat: “Non ha mai venduto le attività acquistate”, ha affermato in Parlamento. E per ora sta lasciando trattare l’Eni che, sottolinea, “ intende mantenere una quota significativa”.

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