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EMERGENZA ACCIAIO – Lo Stato torna nell’Ilva? Sì al portage, no all’esproprio

Dopo i casi di Piombino, Trieste e Terni, la siderurgia italiana affronta il banco di prova più difficile con l’Ilva di Taranto dove si profila un ritorno dello Stato, accettabile se si tratta di una soluzione provvisoria volta a mettere in sicurezza il più grande impianto siderurgico d’Europa ma assolutamente da evitare se fosse un esproprio.

EMERGENZA ACCIAIO – Lo Stato torna nell’Ilva? Sì al portage, no all’esproprio

Suggerirei al Governo la massima cautela nell’imboccare la via del commissariamento, ex legge Marzano rivisitata, dell’Ilva di Taranto perché in questo modo si trasformerebbe un “commissariamento provvisorio”, motivato dalla necessità di avviare la bonifica del sito e di evitare la chiusura degli impianti in un “ esproprio” vero e proprio sulla cui legittimità la Corte Costituzionale potrebbe (e dovrebbe) avere qualche cosa da dire. L’idea poi che l’esproprio possa essere motivato dal carattere strategico delle produzioni di Taranto è ancora più pericolosa perché apre la via alla estensione di questo tipo di procedura arbitraria anche ad altri impianti e settori (chi decide, infatti, che cosa è strategico e cosa non lo è?). Il commissariamento di Taranto deve perciò restare un caso unico ed irripetibile.

La via da imboccare è un’altra: è quella della assunzione da parte del governo di un ruolo di indirizzo e di coordinamento della riorganizzazione del ciclo siderurgico, utilizzando a tal fine tutti gli strumenti di politica industriale di cui dispone, ivi compresi quelli finanziari. Sino ad ore la ristrutturazione della siderurgia italiana è stata condizionata più dalla iniziativa della Magistratura (Taranto), da quella delle procedure concorsuali (Trieste e Piombino) e dai veti anacronistici della Ue che non dagli andamenti del ciclo siderurgico mondiale e dalle necessità nazionali. Anche gli imprenditori privati hanno stentato a fare la loro parte un po’ per mancanza di fondi e un po’, forse, per mancanza di coraggio. A questo punto l’intervento dello Stato per ridare ordine al settore e razionalità alla ristrutturazione appare inevitabile.

Cominciamo da Terni. Chiudere l’acciaieria vorrebbe dire perdere la produzione degli acciai speciali il ché non è possibile. Si deve perciò fare di tutto per evitarlo. Ma la soluzione che si profila (il ritorno della Thyssen) e che è stata annunciata conl’accdo promosso dal Governo e stipulato dalle parti sociali appare provvisoria perché è (comprensibilmente) condizionata al raggiungimento di obbiettivi aziendali (riduzione dei costi e aumento della produttività) che neppure i tedeschi sono stati in passato capaci di realizzare. Detta altrimenti: l’acciaieria può sopravvivere se riduce in modo significativo i costi dell’indotto (che è ipertrofico e costoso) e se aumenta la produttività, anche attraverso una rivisitazione delle relazioni sindacali aziendali (che oggi la frenano) Non è semplice ma è anche l’unica via possibile nell’attesa che la Ue riveda la sua posizione.

Per quanto riguarda Trieste (le ferriere di Servola) la soluzione trovata è certamente la migliore possibile mentre per Piombino non ci resta che incrociare le dita e fare il tifo pechè gli algerini ce la facciano. In entrambi i casi ha pesato molto la volontà dei territori che non sempre è buona consigliera. C’è da augurarsi che in questo caso non sia cosi.

Il vero problema però è Taranto. La via della Marzano rivisitata è, come già detto, molto rischiosa per non dire impercorribile. A parte la possibilità (la certezza) che gli azionisti (Riva e soci) impugnino il sequestro resta il fatto che un simile gesto invierebbe agli investitori esteri un messaggio catastrofico: “L’Italia, come il Venezuela, è un paese nel quale lo Stato può espropriare una azienda che ritiene strategica”. Non si capisce chi, su queste basi, possa venire ad investire in Italia e perché dovrebbe farlo.

La via da seguire è perciò un’altra ed è quella di favorire, senza escludere gli attuali azionisti, la creazione di una cordata di investitori italiani ed esteri del settore che possa prendere nelle proprie mani la sorte degli impianti, che completi la bonifica e riattivi con adeguati investimenti la produzione. A tale fine e in modo dichiaratamente transitorio lo Stato potrebbe, tramite una sua finanziaria (Cassa Depositi e prestiti, Fondo strategico, Fintecna, etc.)concorrere a questa cordata e accompagnarla per il tempo necessario a mettere in sicurezza l’Ilva di Taranto sotto tutti i profili: amministrativi, giudiziari e produttivi. Lo Stato può, e in questo caso con ogni probabilità deve, fare un “portage“. Quello che invece non può e non deve fare è rinazionalizzare l’Ilva e, sopra tutto, espropriala.    

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