Condividi

Elezioni Usa: Biden in vantaggio ma Trump può sorprendere

La pandemia da Covid-19, e come Trump l’ha gestita, domina l’ultimo mese di campagna elettorale prima del voto. Ma non c’è solo questo. Ed è ancora presto per dare i giochi per fatti. Ecco perché

Elezioni Usa: Biden in vantaggio ma Trump può sorprendere

Le grandi incognite gettate sull’ultima tappa delle presidenziali americane dal coronavirus non devono offuscare vari altri aspetti di questa anomala contesa politica, diventata un referendum su Donald Trump. Il virus è penetrato alla grande nella Casa Bianca e, con il presidente Donald Trump e signora ricoverati nell’ospedale militare di Bethesda (Washington), la pandemia e come Trump l’ha gestita balzano inevitabilmente al centro della scena. Ma non c’è solo questo

  Gli americani sono chiamati a scegliere tra un immobiliarista e showman  (il massimo della visibilità Trump lo ha conquistato a partire dal 2004 come patron del serial tv The Apprentice),  e un parlamentare di lunga data e alla fine vicepresidente con Barack Obama che, 78 anni a novembre, sarebbe se vincitore il più anziano presidente mai insediato. Joe Biden dimostra gli anni che ha, mentre “cinghialone” Trump porta un po’ meglio i suoi già notevoli 74 anni.  Trump è inevitabilmente ben noto anche a noi, magari in modo sgradito e certamente superficiale, Biden assai meno. 

  Biden è stato senatore dal 1972, insediato giovanissimo a 30 anni, al 2009; ha rincorso a lungo la candidatura del suo partito alle primarie, nel 1988, nel 2008  e ha dovuto accettare nel 2015 la scelta di Obama di passare il testimone non a lui ma, invano, a Hillary Clinton, un riguardo che dopo tanti sgarbi Obama non poteva rifiutare alla più potente famiglia, allora, dell’universo politico  del partito democratico. Il suo nome dice poco a molti europei, che lo ricordano solo come  vice, cioè ombra, di Obama. Ma Biden a differenza di Obama e soprattutto di Trump è un buon conoscitore dell’Europa, di cui si è sempre occupato sedendo molto a lungo e poi presiedendo la Commissione Esteri. A metà anni 70 era lui a seguire dal Senato il fenomeno eurocomunista, parola di cui pochi ormai saprebbero definire i contorni ma che ebbe un certo peso per un paio d’anni nelle relazioni transatlantiche, dirigendo dibattiti in commissione e deposizioni di esperti.  E anche dalla Commissione Giustizia, inevitabilmente quasi tutta focalizzata su questioni interne, non perse mai d’occhio l’altra sponda dell’Atlantico, che visitava regolarmente.

  A questo punto dati i sondaggi, tutti i sondaggi e non solo i grandi rilevamenti d’opinione a livello nazionale, starebbe per vincere Joe Biden. Già prima del contagio toccato a Trump. Ancor di più dopo, perché oltre ai vari scenari di incertezza che il contagio presidenziale apre, su Trump se viene dimesso presto o no, se riprende o no la campagna elettorale, se è in grado o no di essere ancora il candidato, è certo che la pandemia domina ormai l’ultimo mese di gara, esattamente il contrario di quello che Trump che sempre l’ha sottovalutata e snobbata sperava accadesse. 

  Ma, come osservava pochi giorni fa Nate Silver di FiveThirtyEight,  uno dei maggiori esperti di opinione e che si salvò in parte dalla brutta figura toccata nel 2016 a tutti i sondaggisti  attribuendo comunque a Trump un 30% di probabilità, restano diffusi negli Stati Uniti, in particolare fra i progressisti, tre forti dubbi. Che Trump pur perdendo e magari anche di 4-5 milioni il voto popolare possa vincere  il determinante voto elettorale; che i sondaggi sbaglino in modo clamoroso, come fecero nel 1948 (ma allora erano agli albori) e nel 1980, quando attribuirono a Ronald Reagan un debole vantaggio su Jimmy Carter mentre invece lo scarto fu di 489 a 49 nel voto elettorale e di quasi 10 punti percentuali in quello popolare, o come fecero nel 2016 incapaci di cogliere il fenomeno Trump e l’incontro tra l’ “uomo nuovo” e un diffuso malcontento; e infine, terzo dubbio, c’è il timore che in un testa a testa feroce Trump, e per questo vuole subito la nomina di un giudice conservatore alla Corte Suprema, possa alla fine con vari espedienti “rubare” il voto.  Avere più voti popolari dell’avversario non basta nel sistema presidenziale americano per vincere perché è importante anche la distribuzione geografica del voto, per evitare che pochi Stati molto popolosi monopolizzino la scelta del presidente; il cosiddetto electoral vote o voto elettorale assegna ad ogni Stato tanti “grandi elettori” quanti sono i suoi deputati alla Camera di Washington più i due senatori, e questi voti elettorali vanno in blocco, a parte due piccole eccezioni, a chi ha nello Stato la maggioranza dei voti popolari. In realtà quindi il presidente non è scelto da un voto nazionale unico, ma dalla somma di 50 consultazioni Stato per Stato.

  Ebbene, i sondaggi locali, Stato per Stato, confermano complessivamente il netto vantaggio – siamo all’8% in più su Trump –  che Biden ha nei grandi sondaggi nazionali, dove vengono interpellati a campione elettori di tutti gli angoli del Paese. Se nelle prossime ore, valutando anche le conseguenze del dibattito tv del 29 settembre, questo vantaggio che è stato costante per Biden da giugno scendendo al minimo a 6,6 punti dovesse salire attorno al 10% sia globalmente che come media nei 50 Stati l’impresa per Trump diventerebbe ardua, dice Silver.

  Ma c’è da fidarsi davvero e tanto di sondaggi e sondaggisti? Tutti gli elettori dicono la verità al sondaggista? Può aiutare una piccola riflessione su come Trump ha vinto nel 2016, quando incredibilmente furono in pochissimi a valutare seriamente le sue chances, evidenti invece già a gennaio-febbraio di quell’anno, e su come potrebbe vincere  fra meno di un mese, covid permettendo. Nulla spiega meglio la vittoria di Trump quattro anni fa delle 206 contee, per un totale di 7,5 milioni di voti,  che avevano votato Obama nel 2008 e nel 2012  e dove la maggioranza votò Trump nel 2016. In parte notevole si trovano nei tre Stati, Wisconsin, Michigan e Pensylvania, di cui Trump si assicurava il voto elettorale grazie a una differenza minuscola  a suo favore di 77.744 voti popolari, 44mila circa in Pensylvania, 23mila in Wisconsin e 11mila nel Michigan. Perché da Obama a Trump? Perché quella promessa obamiana di cambiare Washington, di schierarsi con la piccola gente soprattutto dopo lo choc della grande crisi finanziaria del 2008 era considerata fallita, la priorità di Obama era stata salvare Wall Street, e in parte il resto era stato lasciato a se stesso. Trump si presentava come il campione dell’anti-Washington. Ma già alle midterm del 2018 nei tre Stati citati i democratici facevano il pieno, prendendo tutti e tre i governatori e i tre senatori, uno per Stato, che erano al vaglio del voto.

 Trump ha dalla sua un’economia, l’occupazione soprattutto ma anche il Pil, che sta  rimontando bene il crollo della pandemia. L’occupazione è la metà di quel 16% che il CBO, Congressional Budget Office, prevedeva ad aprile per settembre. Per il resto, Trump si è fatto conoscere e può darsi che non sempre sia piaciuto. Potrebbe vincere forse, ma per una differenza ancora più risicata che quattro anni fa, e Silver gli assegna questa volta circa la metà di quel 30% di chances attribuite nel 2016. Sarà, quello in corso, un mese interessante. 

Commenta