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Draghi e la gioventù bruciata: il vero test della politica del governo

Il Ministro Franco fa del benessere dei giovani il metro del successo nel rilanciare il Paese. Ogni anno miliardi di capitale umano fuggono all’estero. Nel solo 2019 quasi 20 miliardi, 133 nel passato decennio

Draghi e la gioventù bruciata: il vero test della politica del governo

Quale filo unisce il ministro italiano dell’Economia, Daniele Franco, a William Shakespeare? Non quello rosso sangue del Riccardo Terzo e del Macbeth, sebbene la tragedia umana della pandemia avrebbe ben potuto ispirare il grandissimo drammaturgo inglese. Nemmeno quello economico che fa da trama a Il mercante di Venezia.

Forse il territorio veneto? Fa da sfondo alle gesta di Shylock, Giulietta e Romeo e l’origine di Franco è in quei luoghi da cui la Serenissima Repubblica traeva i preziosi legnami per i cantieri dell’Arsenale. Ma saremmo sulla strada sbagliata.

Il filo si trova nei Sonetti, che subito pongono il tema del lascito generazionale. Giocato solo apparentemente in chiave estetica.

«Se tu potessi rispondere “Questo mio bel figlio/salderà il mio conto e scuserà me vecchio”/,provando la sua bellezza, per successione, la tua!», si legge nel secondo sonetto, che esorta a non indulgere nel cercare in noi stessi ragioni di sterile vanto, e a puntare invece su chi verrà dopo di noi. Da notare che ai primi del ‘600 quaranta inverni bastavano a essere considerati vecchi; oggi ne servono ottanta!

Similmente, il Ministro fa del benessere dei nostri giovani «il banco di prova dell’efficacia della politica economica», come ha affermato concludendo il suo primo vero discorso pubblico, con il quale ha delineato la strategia del Governo Draghi all’assemblea degli imprenditori milanesi. Franco ha definito quel benessere come la «possibilità di sviluppare appieno le loro potenzialità di studio, di lavoro e di vita personale in Italia».

Dettagliando: «Se i giovani potranno inserirsi nel mercato del lavoro senza difficoltà, se potranno decidere di vivere con i genitori o fuori casa, se potranno laurearsi nelle percentuali dei loro coetanei degli altri principali paesi europei, se non saranno costretti a emigrare per avere prospettive migliori, avremo avuto successo. Questo sarà il test per la classe dirigente di questo Paese, nel settore pubblico e nel settore privato».

È una sfida titanica. Ma decisiva per fermare e invertire il declino italiano. Decisiva perché i giovani sono il futuro, incarnano quel che il Paese diventerà. Titanica perché la malapianta della questione giovanile è stata lasciata radicarsi e infestare il sistema socio-economico nazionale per almeno quaranta inverni.

Infatti, è dai primi anni Ottanta del secolo scorso che tale questione si è posta con grande evidenza.  Sia nel suo lato lavorativo, con il tasso di disoccupazione che era già allora un multiplo del medio, sia in quello abitativo, tanto che risale all’82 l’inizio dell’agevolazione fiscale all’acquisto della prima casa, sia in quello meridionale. Ezio Tarantelli, l’economista impegnato nella vita sociale del Paese e trucidato dalle Brigate Rosse, era angosciato soprattutto dai giovani privi di speranza che ammazzavano (letteralmente!) il tempo trascorrendo le loro giornate nelle piazze deserte dei paesi del Mezzogiorno.

Oggi i dati dicono che la realtà giovanile italiana non è molto cambiata. Nonostante che, a partire soprattutto dalla seconda metà degli anni Novanta (Legge Treu), le politiche abbiano cercato di facilitare l’ingresso nel mercato del lavoro attraverso una serie di misure (contratti a termine, incentivi alle assunzioni), che avrebbero dovuto accrescere le chance occupazionali per i più giovani.

I risultati sono stati del tutto insoddisfacenti. Se in assoluto c’è stato qualche progresso, la distanza rispetto agli altri paesi avanzati si è ampliata. Se gli occupati tra i giovani sono aumentati, la remunerazione si è abbassata, a parità di impiego, rispetto ai loro genitori, come hanno illustrato molti studi della Banca d’Italia (per esempio, Rosolia e Torrini).

I giovani italiani restano in fondo alla classifica internazionale per tasso di occupazione e livello di istruzione e in cima per esclusione dal mondo del lavoro e dalla formazione. Con vari e aggrovigliati legami tra queste tre scomode posizioni: un sistema scolastico valido solo a macchia di leopardo, e che non è stato appropriatamente preparato all’esigenza di accogliere bimbi e ragazzi stranieri, pochi avvezzi all’italiano; un mondo imprenditoriale restio ad assumere i laureati, per la sua struttura di piccola dimensione, e che in tale modo aggrava i propri limiti alla crescita; ammortizzatori sociali ancora del tutto inadeguati a qualificare e riqualificare le persone e a fare incrociare domanda e offerta di lavoro.

A queste deficienze strutturali, si sono aggiunte dal 2009 le recessioni. Perché nel corso delle crisi i lavoratori in ingresso nel mercato del lavoro sono fisiologicamente più svantaggiati: le recessioni comportano un “effetto coorte”, cioè colpiscono di più chi vorrebbe entrare proprio in quell’anno. E l’Italia negli ultimi quindici anni ne ha attraversate ben tre molto gravi.

A riprova della tesi, sostenuta su FIRSTonline, che anzitutto le politiche economiche devono fare in modo di non nuocere all’economia con misure che deprimano la domanda. Come durante la crisi dei debiti sovrani, quando era in atto una fortissima restrizione del credito bancario. O come nella Grande recessione del 2008-09, quando furono tagliati gli investimenti pubblici, anziché aumentarli.

In un mondo in cui la mobilità delle persone è più semplice, tenere a lungo i giovani fuori dal mercato del lavoro è come tappare una falla in una diga con un dito. Mobilità che il Covid-19 ha solo temporaneamente bloccato. La propensione a emigrare all’estero, in presenza di una disparità nelle opportunità così ampia, è inevitabilmente elevata.

L’esclusione giovanile dall’occupazione riduce quel potenziale di crescita che le riforme hanno l’ambizione di innalzare. Di quanto lo diminuisce? La stima non è semplice e può essere oggetto di un progetto di ricerca.

Però un indizio del valore di tale riduzione è l’emorragia di capitale umano che avviene proprio quando le persone giovani e istruite decidono di andarsene all’estero «per avere prospettive migliori». Tenuto conto del costo sostenuto dalle famiglie per allevare i figli e quello a carico delle amministrazioni pubbliche per istruirli, nel solo 2019 l’Italia ha visto fuggire 1,1 punti di PIL di capitale umano, quasi 20 miliardi, secondo le elaborazioni di REF Ricerche. Il conto nel decennio 2010-2019 è stato di oltre 133miliardi.

Per carità, non si tratta di una perdita definitiva. Nel senso che quegli stessi giovani, ricchi dei tesori accumulati per strada, come scriverebbe Costantino Kavafis (Itaca), tornerebbero molto volentieri, se venissero create le condizioni per attrarli. Quelle stesse condizioni necessarie per fermare l’emorragia.

Infine, due osservazioni. Prima: alle difficoltà occupazionali è strettamente connessa la bassa natalità, quindi il calo demografico del Paese, che precede temporalmente e logicamente il declino economico. Aiutare i giovani ad acquistare una casa, come fatto con il decreto Sostegni-bis, serve a chi un lavoro già ce l’ha. Quindi, non può che essere un tassello del complesso e vasto mosaico che serve per portare i giovani italiani allo stesso livello di opportunità dei loro coetanei negli altri paesi avanzati.

Seconda: emorragia nell’emorragia, ci sono le persone che dal Sud se ne vanno, al Nord o fuori dai confini patri. La politica di riduzione del divario Nord-Sud non può non tenerne conto.

Locandina Film
La locandina del film Gioventù bruciata che consacrò James Dean come nuovo astro di Hollywood

Purtroppo, c’è ancora chi legge la questione giovanile italiana alla rovescia, non come una oggettiva difficoltà a progettare il futuro partendo da un presente più precario di quello dei coetanei in altri paesi, ma come una soggettiva attitudine. Definendo «bamboccioni» quanti rimangono a lungo a coabitare con i genitori o «choosy» (schizzinosi) quelli che non si accontentano di un lavoro purchessia.

È un doppio grave errore, perché così si fanno di alcuni casi aneddotici, magari conosciuti personalmente, il fascio di un’intera generazione. Anzi, di più d’una, visto che le persone che erano giovani nell’80 adesso sono prossime alla pensione. E perché si confonde causa ed effetto. Contribuendo a perpetuare quella gioventù bruciatache mina alle fondamenta le possibilità dell’Italia di tornare a crescere.

Perciò le parole di Franco vanno applaudite come segno di piena consapevolezza, coraggio, lungimiranza e anti-conformismo. Bisogna però passare ai fatti, e non sarà per nulla una passeggiata. Ma almeno il punto da cui partire è stato individuato, ed è già un bel passo in avanti rispetto alla tradizione italiana.

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