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Dirigenti, nuovi vincoli per i licenziamenti collettivi

Dal 25 novembre un eventuale investitore estero che voglia comprare un’azienda italiana e cambiarne il management sarà costretto a coinvolgere il sindacato. Così i tempi si allungano: due mesi e mezzo

Dirigenti, nuovi vincoli per i licenziamenti collettivi

Mentre imperversa il dibattito politico e la polemica sindacale sul jobs act con il superamento dell’ art. 18, perlomeno per i licenziamenti economici, il nostro legislatore ha pensato bene di estendere i vincoli della procedura sindacale sui licenziamenti collettivi anche all’unica categoria di lavoratori a tempo indeterminato, quella dei dirigenti, in grado di gestire a livello individuale il rapporto di lavoro, senza particolari guarentigie sindacali o di legge a difesa dei propri diritti.

Sulla Gazzetta Ufficiale del 10 novembre è stata infatti pubblicata la Legge 30 ottobre 2014, n. 161, che entrerà in vigore il prossimo 25 novembre, recante “Disposizioni per l’ adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea – Legge Europea 2013-bis”, la quale prevede – tra l’altro – modifiche alla Legge 23 luglio 1991, n.223 per quanto riguarda il licenziamento collettivo dei dirigenti.

Vero è che, con sentenza del 13 febbraio 2014, la Corte di Giustizia europea ha condannato l’ Italia per non aver correttamente trasporto la Direttiva Europea sui licenziamenti collettivi nella parte in cui ha escluso dall’ambito di applicazione della disciplina dei licenziamenti stessi la categoria dei dirigenti.

Il nostro legislatore è andato però ultra petitum, operando, nella quantificazione degli esuberi da licenziare, la piena equiparazione dei dirigenti alle altre categorie di lavoratori, equiparazione che comunque la Legge Europea non ha effettuato tra i dirigenti e gli altri lavoratori nelle procedure di licenziamento collettivo.

In sostanza, mentre sino ad oggi gli esuberi degli organici dirigenziali sono stati generalmente gestiti con rapporti “one to one” tra azienda e interessati, senza vincoli di flessibilità organizzativa e temporale (certe operazioni manageriali, come insegnano anche casi recenti, più rapidamente si fanno, meglio è per tutti), con la nuova legge sarà necessaria la intermediazione sindacale ed il rispetto di una tempistica di oltre due mesi e mezzo prima di individuare nominativamente il personale da licenziare.

Un eventuale investitore estero, attratto in Italia dalla pubblicizzata flessibilità del mercato del lavoro, si troverà costretto, nel caso volesse procedere ad un rapido cambiamento nel management dell’azienda acquisita, a coinvolgere il sindacato in una procedura di consultazione preventiva della durata di 75 giorni, discutendo i motivi del ricorso al licenziamento collettivo ed addirittura i criteri di scelta dei dirigenti da licenziare, che, se non troverà una intesa con il sindacato, saranno quelli residuali di legge, in concorso ponderato fra di loro: carichi familiari, anzianità aziendale e ragioni tecnico-organizzative e produttive (sic!).

La novità più dirompente è rappresentata dalla osservanza della disciplina legale sui licenziamenti collettivi anche quando, nel novero degli eventuali cinque licenziamenti (nell’arco dei 120 giorni) che l’azienda intende effettuare, vi siano dei lavoratori appartenenti alla categoria dei dirigenti: sarà sufficiente infatti che vi sia anche un solo dirigente nel numero degli almeno cinque licenziamenti tra quadri, impiegati o operai, perché trovi applicazione il rito di una procedura, prevista da una legge di quasi 25 anni fa, con la partecipazione di un ulteriore soggetto, il sindacato dei dirigenti.

Il legislatore ha cercato di salvaguardare l’autonomia della procedura di licenziamento collettivo dei dirigenti tenendola distinta da quella degli altri lavoratori, nel senso che, sebbene le distinte comunicazioni iniziali a tutti i sindacati siano contestuali, la procedura relativa ai dirigenti potrà poi avere tempi (ma anche esiti) diversi rispetto a quella delle altre categorie, fermo restando il rispetto del termine massimo di 75 giorni previsto dalla legge. 

Ben potrebbe quindi, in futuro, accadere che una procedura si concluda con la definizione di un accordo, mentre l’ altra si chiuda senza accordo, con la conseguente applicazione dei criteri di legge ai licenziamenti da intimare, oppure con un accordo contenente diversi criteri di scelta.

Per evitare questo tipo di criticità, e per mera opportunità sindacale, la tendenza probabilmente sarà quella di condurre a termine le due procedure “in parallelo” o, almeno, di differire la comunicazione dei licenziamenti in modo che avvenga contestualmente, sia per i dirigenti che per gli altri lavoratori.

Anche sul fronte delle conseguenze del licenziamento la legge introduce rilevanti novità, armonizzando la normativa con quella introdotta dalla legge Fornero.

Per quanto riguarda l’ impugnazione del licenziamento, quella extragiudiziale dovrà avvenire entro 60 giorni dalla ricezione della lettera di licenziamento ed il deposito del ricorso giudiziario entro i successivi 180 giorni.

Per quanto riguarda i vizi del licenziamento, è ora prevista la reintegra del dirigente ex art. 18 in caso di licenziamento intimato in assenza della forma scritta (è la seconda reintegra prevista per i dirigenti dopo quella del licenziamento discriminatorio), mentre per le ipotesi di violazione della procedura o dei criteri di scelta è stabilita un’indennità in misura compresa tra le dodici e le ventiquattro mensilità di retribuzione, con riguardo alla natura e alla gravità della violazione e fatte salve le diverse previsioni sulla misura dell’indennità contenute nei contratti e negli accordi collettivi applicati al rapporto di lavoro.

In sostanza, il legislatore, trincerandosi dietro una legge europea, ha colto l’occasione per intervenire su una categoria di lavoratori il cui rapporto di lavoro è stato, fino ad ora, regolato in massima parte dall’ autonomia collettiva ed individuale, quasi a sottolineare la necessità di dare maggiori tutele a quella parte di dirigenza, che una certa giurisprudenza definisce come “dirigenti minori” per distinguerli dai dirigenti “apicali”.

Peraltro in questo modo, equiparando le tutele del dirigente alle categorie viciniore, come quelle dei quadri o dei professional, si rischia di minare la caratteristica di fondo del dirigente stesso, e cioè l’elevato grado fiduciario che contraddistingue il suo rapporto di lavoro.  

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