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Derby/1 Monti-Giavazzi tra bocconiani di lotta e di governo

Lo scontro dialettico tra il premier ed ex presidente della Bocconi e uno degli economisti più noti dell’ateneo milanese sta scaldando il dibattito accademico, giornalistico e politico e soprattutto infiamma i siti web – Ma i problemi e le soluzioni sollevate dai duellanti sono più complessi di quanto non appaia.

Nel suo articolo sul Corriere della Sera del 18 Marzo, “Bocconiani di lotta e governo. Dal Palco scatta il derby tra i prof di via Sarfatti”, Dario de Vico sostiene che sabato 17 Marzo al Convegno di Confindustria è andato in scena il Derby Monti – Giavazzi, economisti di punta della Bocconi. Con tutto rispetto e con tutta la stima che nutro nei confronti dei due noti colleghi, mi preme sottolineare che per fortuna il confronto delle idee non può essere ridotto a un derby, ma deve essere considerato un campionato composto da molti più studiosi diversi dai due “illustri duellanti”, come li definisce De Vico.

Infatti il pensiero unico bocconiano non esiste, non solo e non tanto perché “le differenze tra i due esistono e si vedono”, ma soprattutto perché in Bocconi, come per fortuna anche in altre Università italiane, sono presenti tante altre idee sull’economia del passato (che ha causato la crisi che stiamo affrontando), di oggi e di domani.

Il confronto Monti – Giavazzi, governo – sindacato – Confindustria, tra i partiti della strana coalizione che sostiene un governo di fatto “di emergenza e di salute pubblica, è inevitabilmente sulle regole, in questo momento riguardanti le liberalizzazioni e il mercato del lavoro, due temi che monopolizzeranno il dibattito di questa settimana. Va però sottolineato che le regole “sociali” non sono e non potranno mai essere di tipo deterministico e che da sole non sono in grado di modificare in meglio la società e l’economia (come tutti auspichiamo). Le regole sono conseguenza di “valori” di individui e di gruppi sociali che si confrontano, a volte anche duramente, prima di trovare un equilibrio giudicato reciprocamente accettabile. A loro volta le regole, ad esempio quelle sulla flessibilità, sull’ omogeneizzazione dei contratti di ingresso nel modo del lavoro, sugli ammortizzatori sociali, sulla flessibilità in uscita, produrranno risultati diversi a seconda della cultura e dei comportamenti concreti che di fronte ad una nuova normativa del lavoro avranno non solo i futuri governi, i partiti e i sindacati, ma centinaia di migliaia di imprese, tra le quali anche quelle straniere che si vogliono attrarre, nonché milioni di operai, quadri e dirigenti.

Proprio con riguardo ai valori, oltre alle differenze sottolineate da De Vico, che ricorda come Monti fa riferimento all’economia sociale di Mercato, mentre Giavazzi alla distruzione creativa Shumpeteriana e agli effetti positivi della mobilità dei capitali, va evidenziato che entrambi dimenticano, o non sottolineano a sufficienza, altre importanti chiavi interpretative del fenomeno economico.

Al campionato delle idee partecipano molti docenti della Bocconi (ed io mi onoro di appartenere a questo gruppo), che sostengono che le imprese non hanno solo “il dovere di fare l’interesse degli investitori”, come ha sostenuto Monti nel passaggio in cui ha difeso la politica di Marchionne “che si muove in un contesto competitivo internazionale e non deve guardare solo all’Italia”, ma hanno “il dovere di rispondere alle legittime attese di tutti i portatori di interesse” (quelli che le teorie economiche e di management definiscono unanimemente stakeholders), quali i lavoratori, i clienti, i fornitori e le comunità locali di riferimento, senza distruggere l’ambiente. Anche un guru dell’ipercompetizione globale, quale Michael Porter, che negli anni ’90 e metà del nuovo decennio è stato consulente super pagato di imprese globali e di governi desiderosi di abbeverarsi alla fonte della cultura della “competitività”, da alcuni anni ha formulato l’impostazione della CSV, Corporate Shared Value. Secondo questa impostazione, il valore economico è generato dal contributo di tutte le componenti interne alle imprese e anche da soggetti esterni (ad esempio lo Stato e gli enti locali che garantiscono servizi più o meno efficienti) e in quanto tale deve essere distribuito (non redistribuito) in modo da soddisfare le aspettative dei diversi soggetti che partecipano alla produzione. Peraltro non si tratta di novità poiché già negli anni ’60 e ’70, il Professor Carlo Masini, insigne anche se poco conosciuto al largo pubblico ricercatore e docente della Bocconi, aveva scritto un volume dal significativo titolo: “Lavoro e risparmio” (quest’ultimo inteso come risparmio reale e non conseguito attraverso speculazioni finanziarie o investimenti ad elevato rischio, quali sono stati i sub prime). Uno dei punti cardine del libro era il principio secondo cui “la produzione deve svolgersi secondo processi che garantiscano un contemperamento degli interessi di tutti coloro la cui qualità di vita dipende dalle imprese”.

Se le politiche di liberalizzazione, che Giavazzi vorrebbe molto più immediate e radicali e per le quali accusa il governo di non utilizzare tutta la forza che gli deriva dalla situazione di emergenza, fossero intese come subordinazione delle politiche del lavoro alle scelte di imprenditori e manager che rispondono solo o prevalentemente ad obiettivi di massimizzazione delle remunerazioni degli investitori, probabilmente non porterebbero ad un miglioramento della situazione economica, ma quasi sicuramente determinerebbero un’ accentuazione dei conflitti sociali che a loro volta avrebbero ricadute negative sull’economia. Su questo fronte le posizioni di Monti e Giavazzi sono ancora una volta diverse. Il primo è certamente più attento ad evitare che i sacrifici richiesti ai sindacati e al mondo del lavoro, come quelli imposti ad altri soggetti con il decreto definito “Salva Italia”, non superino un livello fisiologico; mentre il secondo sembra meno preoccupato delle condizioni di ”accettabilità sociale e percorribilità politica”, con l’argomentazione che, perdurando la condizione di emergenza, “volente o nolente” l’Italia dovrà accettare le regole imposte dai mercati (sempre anonimi) o da organismi sovranazionali.

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