Forse non avevano tutti i torti Emmanuel Macron e Pedro Sanchez ma anche numerosi economisti italiani – da Marcello Messori a Guido Tabellini e Lorenzo Bini Smaghi – che raccomandavano di tenere la schiena dritta nella trattativa sui dazi con il Presidente americano Donald Trump, mettendo sul tavolo le carte giuste. Certo la controprova di come sarebbe andata se il consiglio fosse stato seguito non esiste, ma di sicuro c’è la prova che la strategia morbida praticata dalla Presidente tedesca della Commissione europea, Ursula von der Leyen e raccomandata dalla premier italiana, Giorgia Meloni, preoccupatissima di non turbare Trump, non ha pagato. Diciamo la verità: il risultato della trattativa sui dazi più che a un accordo assomiglia a una resa all’arroganza del tycoon. Il Made in Italy paga un conto salato – soprattutto nella meccanica e nell’alimentare ma quanto ci costeranno gli acquisti di energia e di armi americane? – e a nulla è valsa la speranza della Meloni di ricevere un trattamento di favore da Donald, che non poteva esserci. A farne le spese saranno soprattutto i Paesi – come Germania e Italia – che hanno una forte esposizione commerciale verso gli Usa. L’Ispi ha calcolato che la Germania potrebbe subire una contrazione del Pil dello o,3% e l’Italia dello 0,2% ma poi bisogna aggiungere la svalutazione del dollaro sull’euro e suoi effetti sulle nostre esportazioni: “Per un esportatore italiano, sommando dazio e cambio sfavorevole, l’onere totale arriva al 21%”.
Ora c’è chi dice che un cattivo accordo è meglio di nessun accordo perché imprese e mercati trovano finalmente una certezza nell’intesa Usa-Ue e perché i costi di una guerra commerciale sarebbero stati devastanti, ma sono argomentazioni poco convincenti, come la prima reazione delle Borse europee testimonia.
Dazi, per la Ue il risultato è già pessimo ma chi garantisce che il 15% sia il punto d’arrivo?
In primo luogo: dove sta scritto che l’alternativa era tra un cattivo accordo sui dazi o la guerra commerciale? Chi ha detto che non si potesse negoziare meglio – con la schiena dritta, appunto! – e che la capitolazione di Von der Leyen, molto attenta alla difesa degli interessi tedeschi più che a quelli europei, fosse inevitabile?. Se non ci saranno adeguate misure compensative per le imprese sottoposte alla tagliola dei dazi, per il Made in Italy la vita sarà dura. Ma c’è un secondo punto, evidenziato soprattutto da Bini Smaghi, che getta un’ombra inquietante su tutta la partita ed è questo: chi garantisce che il 15% sui dazi sia il punto d’arrivo e non di partenza della delirante strategia economica di Trump? Purtroppo nessuno può garantirlo come nessuno può sapere dove l’imprevedibilità dell’arrogante inquilino della Casa Bianca porterà in futuro. E assai poco lungimirante è la considerazione di chi dice, a titolo autoconsolatorio, che in fondo si tratta solo di resistere fino al 2028 quando Trump uscirà di scena. Già, ma di questo passo molte imprese italiane saranno sparite o saranno in ginocchio, a meno che la doccia scozzese di domenica non insegni la lezione all’Europa e all’Italia. Meglio tardi che mai, ma senza il coraggio e l’indipendenza politica si possono solo raccogliere sconfitte.