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Coronavirus, l’allarmismo fa danni: meno Pil e più povertà

L’allarmismo con cui è stato accolto il virus cinese rischia di avere effetti disastrosi e sta compromettendo la crescita globale, alimentando in tanti Paesi fame e povertà

Coronavirus, l’allarmismo fa danni: meno Pil e più povertà

Il 30 dicembre 2019, alle ore 20,31, l’agenzia di stampa spagnola EEE mette in rete la notizia che, al reparto malattie infettive dell’ospedale Gomez Ulla di Madrid, sette pazienti, ricoverati per polmonite, non reagiscono alle consuete terapie. Dopo una settimana, trascorsa in un crescendo di notizie allarmanti, è ormai chiaro che si tratta di un nuovo virus, che i ricercatori madrileni battezzano cetrovirus, per via della sua forma a scettro. Nel frattempo, i casi diagnosticati salgono a 63 e ci sono i primi tre decessi.

A metà gennaio il morbo si diffonde a Barcellona, Valencia, Granada e ad altre città minori spagnole. Le autorità europee decidono allora di mettere in quarantena l’intera Spagna: 47 milioni di persone sono isolate dal resto del mondo. Troppo tardi: rientrando dalle vacanze natalizie, alcune persone hanno fatto in tempo a portare con sé il cetrovirus e a il 18 gennaio i primi casi di contagio si registrano a Londra, Parigi e Roma.

L’agenzia Bloomberg, che fin dall’inizio ha dato grande e martellante risalto a questa epidemia, riporta che la Russia ha chiuso le frontiere con l’Europa; la Toyota ha sospeso la produzione nei suoi impianti inglesi (forse anche perché con la Brexit non sa più a chi vendere le auto); American Airlines, Delta ed Etihad hanno cancellato tutti i voli da e per l’Unione europea; la Cina inizia a rimpatriare i suoi concittadini (il ponte aereo più imponente della storia).

Rapidamente la capacità ospedaliera di Madrid si satura e il governo iberico decide di costruire un nuovo ospedale. Ma fatica a trovare dove, perché ogni volta che individua un sito si costituiscono comitati locali che organizzano manifestazioni contro l’insediamento nel loro circondario di una struttura sanitaria che dovrebbe ospitare gli infettati. Alla fine le proteste fanno cadere il già precario esecutivo.

I mercati finanziari restano relativamente tranquilli. Non si preoccupano affatto per le possibili conseguenze sull’economia mondiale. Forse perché ormai l’Eurozona contribuisce con meno del 5% alla crescita globale, contro il 12% degli Usa e il 40% della Cina. Così le borse continuano a macinare record. Solo i titoli bancari europei cadono a picco, perché la Bce riduce a -0,8% il tasso sui depositi e triplica il programma di acquisto di titoli, con l’intento di prevenire la nuova recessione che si profila per la fragile congiuntura della moneta unica. L’euro crolla a 0,8 contro il dollaro (-28% in poche sedute), nonostante il Presidente Trump inveisca contro la manipolazione valutaria di Francoforte e minacci di mettere nuovi dazi sulle merci importate dalla Ue.

La trasposizione dalla Cina all’Europa degli accadimenti che si sono svolti in queste prime cinque settimane del 2020 non appaia esagerata. La Spagna ha 11 milioni di abitanti in meno dell’Hubei, la provincia che ha come capitale Wuhan, da dove il nuovo coronavirus si è diffuso. In rapporto al resto dell’Eurozona la popolazione spagnola pesa quasi il 14% e l’economia il 12%. Hubei, invece, conta per il 4% sia della popolazione che del Pil cinesi. In altre parole, trattare la Spagna come fosse tutta l’Eurozona, per quanto assurdo possa sembrare, è perfino più appropriato che considerare l’Hubei come fosse la Cina intera. Ma è quello che ormai da un mese fanno i media di tutto il mondo e i governi, ormai guidati dai soli sondaggi.

Vale la pena aggiungere che ogni anno le vittime mortali da influenza sono tra le 290mila e le 650mila (dati Organizzazione Mondiale della Sanità), ma nessuno se ne cura. Il coronavirus fa parte del ceppo influenzale. Qualcuno parla di minaccia di nuova spagnola, che nel 1918 fece tra i 20 e i 100 milioni di morti nel mondo (a seconda della fonte). Ma non c’è neppure confronto tra oggi e allora in termini di nutrizione, promiscuità, igiene, sanità, farmaci, capacità di informare la popolazione.

Perciò fa bene Fabrizio Galimberti a dire che quella «tempesta perfetta» non si verificherà nella realtà odierna. Invece sembra sottovalutare le conseguenze, in termini di vite umane, di quel che chiama «utilissima e giustificatissima paranoia».

Infatti, la reazione al limite dell’isteria dei media e le misure adottate dai governi in tutto il mondo nei confronti della Cina stanno seriamente compromettendo la crescita globale. L’interruzione alle catene del valore, lo stop al movimento delle persone e la perdita di ricchezza (si sono volatilizzati alcuni trilioni di dollari con la caduta delle borse) rischiano di tagliare una porzione non irrilevante al Pil mondiale. Un punto di crescita in meno in Cina significa 0,4 punti in meno di reddito globale (-542 miliardi di dollari, come se sparisse l’intera economia svizzera).

In alcune aree della Terra ciò significherebbe ulteriore povertà. Quante persone in più moriranno di malnutrizione e malattie che la carenza di cibo porta con sé? Insomma, ne ucciderà più la fame che il nuovo virus. Oltre agli effetti immunodepressivi sui 140 milioni di ipocondriaci nel mondo.

D’altra parte, quando il Ministro della Salute del sesto paese avanzato dichiara con orgoglio che l’Italia è l’unica nazione in Europa ad avere interrotto i voli aerei con la Cina, siamo senza speranza.

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