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Confindustria: Italia, per gli imprenditori l’uscita dalla crisi è lontana

L’ANALISI DI MASSIMO RODA’, DEL CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA – L’incertezza sulle sorti dell’economia italiana si è un po’ ridotta nelle previsioni degli economisti ma resta alta tra gli imprenditori. Alla domanda “quando finirà la crisi?” oggi due terzi rispondono tra oltre un anno e mezzo, una quota doppia rispetto al 2010

Confindustria: Italia, per gli imprenditori l’uscita dalla crisi è lontana

Il CSC ha calcolato la forchetta delle previsioni sul PIL per l’anno corrente e quello successivo a partire dal 2007. Essa ha toccato l’apice a gennaio 2012 per le stime sul 2013 ed è stato confermato a gennaio 2013 per quelle sul 2014: 2,3 punti percentuali tra la stima minima e la massima. E oggi, che un avvio di recupero è confermato da tutti gli indicatori congiunturali, è scesa sì a 1,1 punti per il 2015, ma è ben più elevata di quanto non fosse nel 2007 e nel 2008 per l’anno seguente. Ciò testimonia la divergenza di vedute sulle difficoltà del Paese e quindi sulla traiettoria che l’Italia seguirà, date le molte e contrastanti forze in gioco.

La misura dell’incertezza nelle previsioni è rappresentata dalla differenza in punti percentuali tra la variazione annua del PIL italiano più alta e quella più bassa elaborate da tredici istituti di analisi economica e raccolte da Consensus Forecast. Quanto più elevato è questo scarto tanto più ampio è il range nelle previsioni di crescita e, quindi, l’incertezza. Ci si attende che il range sia più largo nell’orizzonte temporale meno immediato. Per valutare il livello dell’attuale divario il CSC ha ricostruito la serie storica a partire dal 2006 delle stime diffuse a gennaio e riguardanti l’anno corrente e quello successivo.
Dai dati emerge che prima della crisi la forbice era relativamente stretta e con poca differenza tra quella del periodo corrente e quella del periodo seguente; il che denota una relativa certezza sul fatto che l’Italia avrebbe mantenuto un certo sentiero di marcia. L’irrompere della crisi ha accresciuto la variabilità, soprattutto all’inizio. Nel gennaio 2009, infatti, la forchetta è raddoppiata per l’anno corrente (1,8 punti), sopravanzando quella per l’anno seguente; un’inversione anomala che testimonia della difficoltà di catturare l’effettiva intensità della recessione a pochi mesi dal fallimento di Lehman Brothers e dal crollo globale della fiducia di famiglie e imprese; comunque le previsioni, anche le più pessimistiche, si sono rivelate rosee, essendo stato di -5,5% l’esito di quell’anno. Successivamente la dispersione delle stime si è stabilmente mantenuta sopra il valore medio osservato prima della crisi.

Nei due anni successivi, la dispersione è rimasta costante per ciascun biennio di previsione: 1,4 punti nel gennaio del 2010 sia per il corrente sia per il seguente e 1,0 nel gennaio del 2011 sempre per entrambe le annate.

L’incertezza è aumentata di nuovo per le stime diffuse nel gennaio 2012, nel mezzo della seconda recessione, specie con riferimento al 2013, anno per il quale la forbice tra la previsione migliore e quella peggiore ha raggiunto addirittura i 2,3 punti e, per la prima volta, le valutazioni dei previsori hanno spaziato tra valori ampiamente positivi (+1,2%) e negativi (-1,1%), con un divario per il 2012 (1,4 punti) fisiologicamente inferiore. Nel gennaio 2013 si è registrata una maggiore concordanza nelle previsioni sulla dinamica del PIL nel 2013, che per tutti gli istituti del panel era ritenuto in calo, mentre sul 2014 è rimasta elevata la variabilità che, come l’anno precedente, si è estesa da variazioni positive a negative.

Le previsioni disponibili a dicembre 2013 presentano una dispersione in calo e quasi identica sul 2014 (dove permane il segno negativo accanto a quello positivo) e sul 2015 (solo segno positivo): 1,0 e 1,1, rispettivamente.
L’accresciuta incertezza risulta più evidente se si calcola la differenza nelle dispersioni delle previsioni di crescita sottraendo, in ogni tornata previsiva, al divario tra massimo e minimo per l’anno seguente lo scostamento nelle stime per quello corrente. Questo indicatore si è mantenuto pressoché stabile fino al 2009, quando è risultato, invece, anomalmente negativo (-0,5 punti), effetto dell’inversione di cui si è detto sopra: i dati diffusi in gennaio avevano evidenziato una maggiore varianza nelle previsioni per l’anno in corso e una maggiore omogeneità in quelle relative al 2010, anno per il quale la maggior parte degli istituti aveva prudentemente indicato una crescita intorno al potenziale (sottostimando l’incremento effettivo del PIL). Durante la successiva fase di ripresa tale indicatore è risultato pari a zero, ovvero lo scarto tra previsioni era rimasto invariato nei due anni. È, invece, balzato a valori più elevati nel 2012 (0,9) e, soprattutto, nel 2013 (1,4), riflettendo una più diffusa dispersione – e quindi una maggiore incertezza – nelle stime dei previsori sulle tendenze a due anni dell’economia italiana. A dicembre 2013 è bruscamente rientrato (0,1), denotando una incertezza sostanzialmente uniforme per l’anno più lontano e per quello più prossimo.

Per gli imprenditori, all’opposto, l’incertezza sulla durata della crisi è salita regolarmente dal 2010 al 2013. Le indagini d’opinione svolte dalla Fondazione Nord Est presso 1059 imprese hanno, infatti, mostrato un progressivo aumento della quota di quanti si aspettano che la fine della crisi avvenga in un orizzonte temporale superiore a un anno e mezzo: nel 2010 era il 34,9%, nel 2013 il 66,6%. È calata la percentuale di quelli che la ritengono possibile entro un anno: dal 31,1% al 13,7%. Vista sul piano puramente statistico, in realtà, c’è una concentrazione di risposte sullo scenario peggiore e ciò denota il radicarsi e il convergere delle valutazioni sulla gravità del quadro socio-economico italiano.
Il perdurare della crisi, e in particolare la seconda recessione guidata dal crollo della domanda interna, ha accentuato l’incertezza (ma che forse sarebbe più appropriato chiamare pessimismo) tra gli imprenditori. Tuttavia, se da una parte la presa d’atto della cifra strutturale della crisi ha provocato una maggiore prudenza nelle scelte di investimento, dall’altra ha indotto le imprese a percorrere strategie nuove e a intraprendere percorsi di sviluppo alternativi per sopravvivere in un contesto molto più magmatico che in passato.

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