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Caffè, il clima mette a rischio il rito della tazzina: ecco dati e soluzioni

Nel 2023 la produzione globale è cresciuta solo dello 0,1% e la domanda ha superato l’offerta. Gli stock sono ai minimi da 12 anni e in Brasile, dove si produce un terzo del caffè di tutto il mondo, il caldo record mette a rischio le piantagioni. I possibili scenari

Caffè, il clima mette a rischio il rito della tazzina: ecco dati e soluzioni

Gli italiani sono tra i più grandi consumatori mondiali di caffè (ne beviamo in media quattro al giorno, anche se c’è chi fa meglio), eppure pochi di loro sanno che in futuro potrebbero dover rinunciare a qualche tazzina, o pagarla molto più cara. Il motivo? Indovinate un po’: i cambiamenti climatici. Così come praticamente tutte le materie prime, soprattutto quelle agricole, anche il caffè attraverso un momento di difficoltà a livello globale: il 2023 è stato il quarto anno consecutivo di stagnazione della produzione, con una crescita di appena lo 0,1% e il consumo che ha superato la produzione di quasi 5 milioni di sacchi da 60 kg. L’ICO, Organizzazione internazionale del caffè, prevede che anche il 2024 sarà così e anzi il Dipartimento Agricoltura degli Stati Uniti stima che quest’anno gli stock toccheranno il livello minimo da 12 anni. Non è tutto: l’Università di Zurigo ritiene che da qui al 2050 le aree adatte alle piantagioni di caffè si ridurranno del 50%, e secondo l’Università Humboldt di Berlino la qualità arabica in Brasile praticamente sarà introvabile (-85%).

Brasile: il gigante del caffè sotto l’assedio del caldo

Quello sul Brasile non è un dato banale, visto che è di gran lunga il primo produttore mondiale col 33% del mercato e il primo esportatore col 26% (esporta in 152 Paesi), davanti a Vietnam, Indonesia e Colombia: la metà del caffè di tutto il pianeta viene coltivato in Sudamerica e proprio il Brasile è il benchmark, il Paese che detta i prezzi al punto che il record di produzione del 2019 aveva messo in ginocchio il Guatemala, innescando una ondata migratoria verso gli Usa (in quel caso il Washington Post scrisse che il Brasile è “l’Arabia Saudita del caffè”). Eppure, anche il gigante del Sudamerica è ora in difficoltà. Perché? Fa troppo caldo. Sebbene il caffè venga coltivato nella fascia tropicale, non sopporta temperature eccessivamente alte come quelle che si stanno registrano negli ultimi tempi, in particolare in Sudamerica dove da un paio d’anni imperversa l’anti-ciclone El Nino. In Brasile il 2023 è stato l’anno più caldo da quando la temperatura viene misurata, cioè da 174 anni, con 1,27 gradi sopra la media.

Caffè, la produzione crolla e la tazzina diventa un lusso

Le piante di caffè invece hanno bisogno di una temperatura media annua non superiore ai 23 gradi, anzi per la qualità “robusta” l’ideale secondo una ricerca australiana pubblicata su Global Change Biology sarebbero 20,5 gradi, molto meno rispetto a precedenti stime che indicavano una buona produttività anche tra 22 e 30 gradi. Di questa specifica qualità, molto richiesta sul mercato, il primo produttore mondiale è il Vietnam, che però nel 2023 ha visto la produzione crollare di quasi il 10% e sempre per colpa del cambiamento climatico: in questo caso, il motivo sono state le precipitazioni prolungate e superiori alla media. In Brasile invece preoccupa il caldo: secondo la prestigiosa rivista Scientific Report, all’aumento di un solo grado della temperatura media nello Stato di Espirito Santo, uno dei maggiori produttori del Paese, è legato un crollo della produzione del 41%. Che cosa significa tutto questo? Che il caffè diventerà sempre più caro, e che per continuare a produrlo bisognerà inventarsi delle alternative

Caffè a rischio, come salvarlo dal cambiamento climatico?

Una di queste, secondo uno studio della Facoltà di Ingegneria agronomica dell’Università di San Paolo, potrebbe essere di piantare altri alberi da frutta nelle piantagioni di caffè, per generare più ombra e abbassare la temperatura di circa 0,6 gradi. Altra opzione: l’evoluzione genetica, controllata dalla scienza. L’Etiopia ad esempio è il quinto produttore mondiale, specializzato in “arabica”, ma rischia di perdere il 60% delle piantagioni da qui al 2100. Potrebbe però riconvertirsi: la specie Coffea stenophylla, studiata dal Royal Botanic Gardens, sopporta temperature di quasi 7 gradi superiori a quelle della qualità arabica. Oppure, c’è sempre l’opzione di coltivare ad altitudini maggiori per trovare temperature meno torride. Anzi, secondo la rivista scientifica Frontiers in Plant Science questa pratica potrebbe persino migliorare la qualità del caffè. Ma non è affatto scontato che si riescano a trovare territori adatti e soprattutto abbastanza vasti da sostenere la domanda globale, oltre al fatto che mancano infrastrutture e che verrebbe stroncata l’attività degli attuali coltivatori, generando crisi economiche e conseguenti migrazioni. Ecco, quando si dice che la crisi climatica è un’emergenza umanitaria, si intende questo.

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