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Bernanke e Draghi, due cure diverse per due malati diversi sperando che Berlino apra gli occhi

La Fed ha potuto adottare una politica monetaria espansiva in un Paese che ha una politica fiscale non restrittiva malgrado lo squilibrio dei conti con l’estero e il risultato è che gli Usa sono in ripresa – In Europa i vincoli della Bce hanno costretto Draghi a fare miracoli ma l’eccesso di austerità ha accentuato la recessione: è ora di aprire gli occhi.

Bernanke e Draghi, due cure diverse per due malati diversi sperando che Berlino apra gli occhi

Ai commentatori economici piace spesso far riferimento ad analogie di natura medica e non mi sottrarrò all’usanza. Vi sono due pazienti lungodegenti sulle sponde dell’Atlantico del nord: l’economia americana e quella europea. E vi sono due primari che si arrabattano per curarli: Ben S. Bernanke e Mario Draghi. Le degenze dei due pazienti sono simili nella tempistica, sebbene non nella diagnosi né nella cura.

Da qualche giorno si assiste all’agitazione che si è prodotta perché il primario americano ha preannunciato al suo paziente che l’anno prossimo gli toglierà la dopamina con cui, dal 2007 in varia misura, lo ha tenuto su. È appropriato parlare di dopamina perché la ripresa americana è abbondantemente drogata sia dall’intonazione fortemente espansiva della politica fiscale sia dal Quantitative Easing (QE).

Se misuriamo la politica fiscale con il deficit strutturale – al netto degli andamenti del ciclo economico – negli Usa si è passati da un deficit pari al 2,8% del Pil nel 2007 a valori sopra l’8% nella media 2009-11 scesi solo al 6,4% nel 2012. Quindi, la politica fiscale americana è stata fortemente espansiva. Inoltre, con le svariate migliaia di miliardi di acquisti in titoli di stato e Mortgage Backed Securities (MBS), il QE della Federal Reserve ha artificialmente gonfiato i relativi prezzi, evitando una possibile serie di fallimenti a catena che avrebbe compromesso la ripresa economica.

Però, se il paziente americano si sente meglio, come mostra una crescita reale del Pil sopra al 2% (per l’esattezza 2,4% nel primo trimestre 2013, al disopra di una media di circa il 2% nel 2011-12) e la rinnovata creazione di posti di lavoro, aver conseguito ciò mediante stimoli senza precedenti potrebbe non essere un risultato stabile. Infatti, la ripresa potrebbe non essere ancora abbastanza consolidata per togliere la dopamina: le reazioni assai negative del mercato azionario confermano tale timore.

Ma vi è di più, il grave problema del deficit delle partite correnti resta aperto. È vero che dai livelli oltre il 6% del Pil americano nel 2006 si è poi scesi attorno al 3%. Però, essendosi gli Usa fortemente indebitati sull’estero, l’aggiustamento richiederebbe dei surplus e non ulteriori deficit (sia pur ridotti). Nel 2004, Sebastian Edwards stimava che l’aggiustamento del deficit esterno sarebbe costato agli Usa un prolungato effetto depressivo sulla crescita del Pil dell’ordine di oltre 3% all’anno. Resta da vedere se Edwards si sbagliava. Quello che si nota nel frattempo è che l’accentuarsi della crescita americana tende a produrre nuovi peggioramenti del deficit delle partite correnti: prendendo i valori trimestrali della crescita reale del Pil e del rapporto tra deficit delle partite correnti e Pil, si riscontra una notevole correlazione positiva (prossima a 0,5) tra le due serie temporali. Quindi, anche se la crescita Usa fosse in effetti duratura, essa potrebbe determinare un nuovo peggioramento nei conti con l’estero e, perciò, riacutizzare quegli squilibri globali che tanta parte ebbero nel creare le fragilità alla base della crisi.

Le cose stanno ben diversamente dall’altra parte dell’Atlantico. Nell’Eurozona, in luogo della dopamina sono state somministrate generose dosi di bromuro. Seguendo l’autoimposta, sciagurata austerità fiscale, di fronte alla crisi più grave dagli anni ’30, nell’Eurozona il deficit strutturale è stato ampliato solo leggermente portandolo dal 2,4% del 2007 al mero 4,4% del 2009-10 per poi contrarlo al 3,4% nel 2011 e al 2% nel 2012. Le conseguenze, per di più fortemente asimmetriche tra i Paesi membri della stessa area valutaria, si sono fatte sentire con un Pil reale cresciuto solo dell’1,7% nella media 2010-11 e ridottosi dello 0,6% nel 2012, quando la recessione dei Paesi in crisi del debito sovrano si è estesa all’area nel suo complesso.

Il primario europeo, Mario Draghi, succeduto a fine 2011 a Trichet al capezzale del malato, si è dato da fare ma ha potuto conseguire solo risultati parziali. Invero, se la si guarda nel suo complesso, la politica monetaria della Bcs si è mossa in modo espansivo. La Bce ha abbassato con decisione i tassi di interesse ma la fondamentale influenza della Bundesbank non le ha mai permesso di avventurarsi in interventi di QE di entità paragonabile a quanto nel frattempo faceva la Federal Reserve.

Sì, è vero, in presenza dello sfrenato attacco speculativo ai debiti sovrani dei Paesi periferici, Trichet introduce il Securities Markets Program, col quale la Bce interviene sul mercato secondario evitando che l’Italia e la Spagna siano messe del tutto in ginocchio. E poi il nuovo primario vara a cavallo tra 2011 e 2012 la Long Term Refinancing Operation (LTRO, concedendo liquidità all’1% per mille miliardi di euro alle banche europee) e a luglio 2012 anticipa spavaldo alla City di Londra le Outright Monetary Transactions (OMT, operazioni sinora mai applicate ma la consapevolezza della cui esistenza è sufficiente a bloccare la speculazione più sfrenata, perché con esse la Bce può comprare, in misura anche illimitata, sul mercato secondario titoli di Stato dei Paesi sotto attacco), che riesce a far approvare a settembre isolando la Bundesbank.

Se da un lato possiamo complimentarci con il nostro primario perché è riuscito a propinare una qualche dose di dopamina anche in Eurolandia, dall’altro bisogna osservare che questa dose di stimolante è di certo inferiore a quella del bromuro fiscale. E, inoltre, una politica monetaria accomodante significa ben poco di fronte alla natura della crisi europea. Infatti, il mercato dei capitali – persino quello bancario – dell’Eurozona si avvita ri-segmentandosi in base ai confini nazionali pre-euro. Con i tassi sui titoli di Stato che seguono strade divergenti (in alto per i periferici, in basso per la Germania e gli altri non sotto attacco speculativo) la stessa politica attuata per tutti a Francoforte diviene più espansiva a Berlino, L’Aia e negli altri Paesi “core” e più restrittiva a Madrid, Roma e negli altri periferici. Perciò, l’offerta di credito è relativamente abbondante nei Paesi “core” mentre i periferici soffrono un prolungato e profondo credit crunch. Contro ciò nulla può lo LTRO e poco persino l’OMT.

In questa situazione, in cui la liquidità erogata dalla Bce finisce in gran parte parcheggiata nei conti di deposito che le banche commerciali – impaurite a prestarsi tra di loro attraverso i confini nazionali o, all’interno dei periferici a dar credito a economie in catalessi per il bromuro fiscale – il primario si accinge probabilmente a introdurre qualche altro innovativo stimolante. In questo senso si può leggere la più recente conferenza stampa di Draghi. Un intervento cui pare si stia pensando è quello di introdurre tassi di interesse negativi sui depositi detenuti dalle banche commerciali presso la Bce. Si tratterebbe di una misura del tutto inconsueta, ma legittima e cui dare il benvenuto in questi tempi eccezionali. Le banche europee dei Paesi forti sarebbero così spinte a prestare anche a quelle dei periferici e quest’ultime a fare più credito alle loro economie che, altrimenti, rischiano di illanguidirsi ulteriormente.

Resta il fatto che qualcuno, un giorno, dovrà spiegare ai nostri nipoti come abbiamo fatto, noi europei, a tirarci addosso questa crisi profonda che si sarebbe potuta evitare, solo che i nostri leader fossero stati all’altezza. Il confronto con gli Usa apre gli occhi. Oltreoceano un Paese con forte e persistente squilibrio nei conti esteri è riuscito a riavviare la crescita somministrando dopamina fiscale e monetaria assieme e il dubbio è solo che la rinnovata crescita risulti insostenibile perché potrebbe ampliare quello squilibrio. L’Eurozona non ha squilibrio esterno – anzi, nel 2012 si è avuto un surplus delle partite correnti pari all’1,2% del Pil – ma l’insana idolatria dell’austerità ha somministrato dosi da cavallo di bromuro fiscale ai periferici e l’avvitarsi delle crisi dei debiti sovrani ha reso colà inefficace anche la dopamina monetaria. Pare che a Francoforte si stiano dando da fare. Ma rinsaviranno in tempo a Berlino e Bruxelles?

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