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Bentivogli: “Nuovo governo, piano Fca, tecnologie: ecco le sfide del sindacato”

INTERVISTA A MARCO BENTIVOGLI, Segretario Generale della Fim-Cisl – “Il nuovo Governo lo misureremo sulle questioni concrete ma il contratto di programma è preoccupante: non c’è nulla su lavoro e industria” – “Il piano Fca ha aspetti positivi ma criticità sulla localizzazione degli investimenti e sulle alleanze” – “Basta con la tecnofobia” e nuove tutele per i lavoratori della gig economy.

Bentivogli: “Nuovo governo, piano Fca, tecnologie: ecco le sfide del sindacato”

Dal nuovo piano industriale di Fca, l’ultimo di Sergio Marchionne, alla formazione del nuovo governo, fino alle nuove sfide del sindacato di cui si è discusso in diversi tavoli al Festival dell’Economia di Trento, che si è incentrato proprio sul tema “Tecnologia e lavoro”. Marco Bentivogli, segretario generale di Fim Cisl, il sindacato dei metalmeccanici della Cisl, illustra a FIRSTonline i suoi orientamenti partendo da un punto fermo: “La tecnologia è un valore, e non è vero che non è neutrale. Lo è, perché incorpora i valori di chi la utilizza, incarna i valori di chi la produce: dipende da noi e da come la utilizziamo se creerà o meno disuguaglianze. Ma è ora di dire basta alla tecnofobia: in molte fabbriche che visito sono gli stessi lavoratori a fare a gare per provare i nuovi sistemi. La tecnologia può migliorare le loro condizioni di lavoro e, soprattutto, la produttività”. Basta saperla usare nel modo giusto, ma questo richiede una rivoluzione culturale, anche al sindacato. Ecco perchè.

Gli ultimi dati congiunturali dicono che l’industria italiana è ripartita e che il fatturato tornerà nel 2019 ai livelli pre-crisi, ma che l’occupazione è ancora lontana da quella del 2007. E in Italia investiamo sempre più in robotica. Il lavoro nelle fabbriche è in pericolo?

“No, assolutamente: la tecnologia ha sempre prodotto più lavoro di quanto ne abbia cancellato. Se guardiamo alcuni tra i Paesi più tecnologici del mondo come Corea del Sud, Giappone, Germania, hanno tassi di disoccupazione intorno al 3%. Se facciamo fatica a crescere e ad assumere è perché mancano la cultura industriale e gli investimenti, ma non è colpa della tecnologia. Le infrastrutture digitali ed economiche che cambieranno le vite delle persone sono un qualcosa che sta già avvenendo. La sfida vera è come il Paese si candida a muoversi nel cambiamento. Un Paese serio costruisce dentro di sè la capacità di anticipare ciò che serve: noi, come Fim-Cisl, nell’ultimo contratto nazionale abbiamo conquistato il diritto soggettivo alla formazione, cioè accanto al salario la formazione va garantita a tutti e deve essere l’incrocio tra i bisogni delle imprese e la costruzione delle competenze dei lavoratori necessarie a soddisfarli. Ecco perché servono reti diffuse dove le persone possano riqualificarsi e ricollocarsi. Durante la crisi il sindacato ha dovuto proteggere le persone, ora invece siamo impegnati a elevare le persone e le loro competenze per renderle più forti dentro questo grande cambiamento. Noi vogliamo stare nel futuro e la tecnologia è un grande alleato per umanizzare il lavoro e per liberare la persona nel lavoro. Per esempio, anche attraverso lo smart working, che è uno strumento che sta funzionando e che è possibile grazie alla tecnologia”.

Il sindacato, secondo lei, come deve cogliere questa nuova sfida?

“Su tutte le nuove questioni occorre usare strumenti nuovi anche dal punto di vista sindacale. In Fca nel 2006, quando è cominciata la prima implementazione tecnologica, il sindacato si chiamò fuori pensando di essere già tutelato dallo storico accordo del 1971 che prevedeva l’assistenza del delegato quando i tecnici dell’azienda analizzavano tempi e metodi dei cicli di lavoro. Non si capì, invece, che nella fabbrica nuova quell’accordo era inservibile perché l’organizzazione fordista era venuta meno. Occorre quindi liberarsi da quella cultura malsana di chi, per ragioni politiche, ha quasi la necessità di dipingere la fabbrica come un luogo infernale, investendo sulla rabbia delle persone per raggiungere scopi elettorali senza rendersi conto che poi, quelle stesse persone, si sono rifugiate altrove, come dimostra ciò a cui assistiamo oggi”.

Avete già sperimentato qualche novità in questo senso?

“Sì, sempre in Fca, ad esempio, abbiamo fatto una ricerca, una volta si chiamava inchiesta operaia, insieme al Politecnico di Torino e in quella ricerca è emerso come gli operai manifestano il desiderio di un maggior coinvolgimento cognitivo. Molti di loro fanno a gara per sperimentare le novità. La tecnologia può essere la nostra grande alleata nel migliorare la salute dei lavoratori e noi non possiamo ignorare che lasciarsi alle spalle un lavoro usurante, anche grazie all’uso della tecnologia stessa, è una conquista sindacale. Negli stabilimenti Fca, la tecnologia ha reso possibile la cura dell’ergonomia per cui l’automobile scorre nella linea di montaggio, si alza, si abbassa e ruota in funzione delle caratteristiche fisiche del lavoratore. La cura dell’ergonomia non è solo cura del benessere del lavoratore, ma è anche la strada per aumentare la produttività, che è un altro tema fondamentale. Una fabbrica che spreme il lavoratore e che non produce al massimo non ha molto futuro. Dobbiamo creare smart factory e costruire un ecosistema 4.0: in questo ecosistema la formazione è fondamentale e l’uomo è al centro”.

A proposito di Fca, il primo giugno Sergio Marchionne ha presentato il suo ultimo piano industriale da amministratore delegato, quello che punta all’azzeramento del debito e ad ulteriori investimenti per l’auto elettrica e nuovi prodotti. Lei era presente all’Investor Day di Fca a Balocco: che impressioni ha avuto?

“Gli aspetti positivi sono quelli dell’elettrificazione e dei prodotti nuovi: l’idea di abbandonare il mass market è buona, perché ormai la marginalità del mass market è di poco più di qualche decina di euro. Bene anche l’azzeramento del debito, che avverrà entro questo mese. Ci sono però delle criticità: ad esempio mancano le localizzazioni degli investimenti, sapere con precisione in quali stabilimenti saranno fatti. Non c’è il pericolo che non siano fatti in Italia, ma il piano in questo senso non è molto preciso: l’obiettivo deve essere quello di tornare alla piena occupazione. L’altra criticità è quella della strategia delle grandi alleanze: Fca è un grande gruppo a livello globale ma deve probabilmente valutare di espandersi per affrontare al meglio tutte le nuove sfide”.

Tra le novità di questi giorni c’è anche la nascita del nuovo Governo, dopo quasi tre mesi di travaglio. Che cosa si aspetta dal nuovo Esecutivo legastellato?

“Lo misurerò entrando nel merito delle questioni concrete. Per ora posso solo dire che non mi dispiace l’accorpamento dei due ministeri, lo Sviluppo economico e il Lavoro. Il contratto di governo è però preoccupante: non c’è quasi nulla sul lavoro e sull’industria, anzi emerge un sentimento di fondo anti-industriale. Lo testimoniano anche le intenzioni manifestate sulla questione dell’Ilva: l’Italia è un grande Paese manifatturiero che ha un bisogno vitale dell’acciaio, e non può permettersi di importarlo. Il tema non è solo quello, già molto importante, dei 20mila lavoratori che rischierebbero il posto, ma ne va del futuro industriale del Paese. E non è vero che l’acciaio debba per forza inquinare: le cito, tra i vari possibili, l’esempio virtuoso dell’Austria”.

Il ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro, Luigi Di Maio, in passato ha esplicitamente detto di voler abolire i sindacati e di voler favorire la contrattazione diretta dei lavoratori. Ed è anche il fautore del reddito di cittadinanza. Lei che ne pensa?

“Sulla prima questione sono d’accordo con lui a metà. Ovviamente non sul fatto di abolire il sindacato, ma sulla contrattazione diretta sì. Però ogni volta che si è trattato di votare il provvedimento in Parlamento, il Movimento 5 Stelle non ha risposto presente: la legge Ichino, che prevedeva anche questo, è ancora nel cassetto. Sul reddito di cittadinanza, come è noto, sono contrario: non posso immaginare un mondo in cui sempre meno gente lavora e sempre più gente resta “in panchina”, per usare un gergo sportivo”.

Di fronte alla nascita del primo governo populista in Italia appare in tutta evidenza la mancanza di un forte opposizione democratica che serva a bilanciare i poteri nel sistema politico: c’è chi, come l’ex ministro Calenda, sostiene che bisognerebbe creare un vasto fronte repubblicano di opposizione in difesa della Costituzione e dell’Italia in Europa. Qual è il suo parere?

“Io faccio un altro mestiere per cui non commento questo tipo di proposta. Dico però che l’alternativa più forte al populismo, che purtroppo è stato alimentato anche da alcuni sindacati che sono rimasti fermi alle bandiere dell’articolo 18 e della legge Fornero, è il popolarismo, cioè costruire progetti di cambiamento della società che siano popolari e che non guardino a grattare la pancia delle persone ma che ne utilizzino la consapevolezza e la partecipazione. Lo stesso, se vogliamo, vale per il sindacato. Io sono contrario al sindacato che pone veti sui processi riformatori: una riforma è buona non se accontenta i lavoratori in questione, ma se li coinvolge e li impegna per migliorare la produttività o la qualità del servizio, a seconda del settore di cui parliamo. Al centro di una riforma della scuola ci devono essere gli studenti, non gli insegnanti. Al centro di una riforma della sanità vanno posti i pazienti, non medici e infermieri”.

Tornando ai temi trattati a Trento, c’è quello dei lavoratori della gig economy: i riders dei vari Deliveroo, Foodora, Glovo, ad esempio. Si parla molto della mancanza di tutele per questi lavoratori, che rappresentano ancora una percentuale piccola ma sono sempre di più. Tito Boeri, direttore scientifico del Festival, ha lanciato la proposta di un salario minimo legale. E’ d’accordo?

“Il grande problema è lo schiacciamento che viviamo in Italia, la cosiddetta autostrada bicolore: o lavoratori autonomi, o lavoratori dipendenti. Gli e-worker non sono né l’uno né l’altro: inquadrarli come dipendenti affosserebbe le aziende che danno loro lavoro, inquadrarli come autonomi li priverebbe di qualsiasi tutela. Bisogna ragionare su tutele nuove, ma il sindacato deve cambiare atteggiamento: la grande contrattazione collettiva non deve trasfigurare se stessa per intercettare questi lavoratori ma piuttosto deve cambiare i connotati della contrattazione per approcciare il tema in maniera specifica e pensare a delle tutele reali. La proposta di Boeri va valutata, a me piace di più quella del professor Michele Faioli, che prevede quattro piano di tutele per i lavoratori delle piattaforme digitali”.

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