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BANCHE POPOLARI – Che cosa cambia con la riforma Renzi approvata dal Parlamento

Renzi ha centrato al primo colpo una riforma sabotata da 20 anni e che ieri è diventata legge – Ma prima che in Parlamento era stata promossa a pieni voti dalla Borsa dove i titoli delle Popolari hanno preso il volo – La trasformazione in spa e l’abolizione del voto capitario valorizzeranno le grandi Popolari e apriranno la via alle fusioni – Bcc e bad bank

BANCHE POPOLARI – Che cosa cambia con la riforma Renzi approvata dal Parlamento

Alzi la mano chi credeva che Matteo Renzi avrebbe davvero centrato la riforma delle banche popolari al primo colpo. Era da vent’anni che i diversi governi e il Parlamento provavano a riformare uno dei comparti fondamentali del sistema bancario ma inutilmente. Da Draghi in poi anche la Banca d’Italia, che ha apertamente sostenuto la riforma Renzi, aveva provato in mille modi ad esercitare la sua moral suasion sulle Popolari ma con scarsi successi. Una lobby trasversale orchestrata dalla potente Assopopolari ha sempre ostacolato e poi affossato ogni progetto di cambiamento. Con argomenti spesso risibili.

Matteo Renzi ha rotto l’incantesimo e ha svelato a tutti che l’Assopopolari era una tigre di carta e che bastava andare avanti con determinazione per liquidare resistenze e ostruzionismi che minavano il cammino della riforma. Alla fine, anche le banche popolari più illuminate hanno capito che la riforma era ineluttabile e che ne avrebbero esse stesse tratto un grande beneficio. L’impennata dei titoli delle Popolari in Borsa, che in qualche caso ha raggiunto il 70% dall’inizio dell’anno è lì a dire che, ancora prima del Parlamento, il mercato aveva già promosso a pieni voti la riforma che obbligherà le grandi banche popolari a trasformarsi in spa entro 18 mesi e ad abolire il voto capitario.

Una riforma che non è retorico definire epocale. Per almeno tre ragioni. In primo luogo perché introduce finalmente elementari criteri di democrazia finanziaria per le grandi banche popolari che nella maggior parte dei casi hanno liberamente deciso di andare in Borsa. Come si potesse ragionevolmente conciliare la quotazione in Borsa con la difesa del voto capitario nessuno è stato mai in grado di dimostrarlo e sarebbe stato curioso vedere che cosa avrebbero fatto le grandi banche popolari se fossero state poste di fronte all’alternativa tra la permanenza in Borsa e la fedeltà al voto capitario, dietro la cui difesa, come efficacemente ha ricordato Renzi, in molti casi si nascondevano solo le rendite di posizione dei signorotti locali delle Popolari. D’ora in poi nelle grandi popolari le azioni si conteranno e non si peseranno più. Conta chi apre il portafoglio e chi rischia investendo. 

In secondo luogo la riforma si può davvero definire epocale perché si è fatta attendere per almeno vent’anni se si pensa che il primo serio tentativo di abolire il voto capitario e di riformare le banche popolari fu compiuto a fine ’97 da Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro con Carlo Azeglio Ciampi ministro, con la prima bozza del Tuf (il Testo unico della finanza). Ma anche allora la reazione di Assopopolari fu furiosa e nella versione finale del Tuf l’abolizione del voto capitario scomparve. L’Assopopolari ha perso vent’anni a combattere battaglie di retroguardia rinunciando a proporre ipotesi di autoriforma che avrebbero permesso di valorizzare prima e di più le Popolari e di evitare l’intervento legislativo.

Nel corso del dibattito sulla riforma Renzi – cha ha avuto la saggezza di distinguere tra grandi e piccole Popolari limitando la riforma ai soli istituti con più di 8 miliardi attivo – si sono sentite argomentazioni anti-riforma che definire peregrine è dire poco. Prima c’è stato il grido di dolore contro lo snaturamento dello spirito cooperativo come se l’approdo in Borsa, liberamente scelto, e la crescita fino a dimensioni da grandi player nazionali non avessero già di per sé mutato profondamente la natura originaria delle Popolari rendendo difficile distinguerle dalle grandi banche commerciali. Poi si è evocato l’assalto dei Cosacchi a San Pietro immaginando gruppi e capitali stranieri alla conquista del fior fiore delle nostre maggiori Popolari, ignorando la vigilanza della Banca d’Italia e della Bce. Argomenti non nuovi se solo si ricordano le tante miopi resistenze di chi difendeva la gestione politica del credito opponendosi vent’anni fa alla privatizzazione del Credito Italiano e della Comit che, guarda caso, sono ancora in mani italiane.

Infine, la riforma può considerarsi epocale perché modernizza e valorizza un segmento essenziale del sistema bancario aprendo la strada a una maggiore efficienza, al consolidamento dimensionale e al rafforzamento patrimoniale con un accesso al mercato dei capitali reso più agevole dalla trasformazione in spa. La possibilità di mantenere, ma solo per due anni, il limite al 5% del diritto di voto accrescerà la contendibilità senza spianare la strada a scalate avventurose ma dando alle grandi Popolari il tempo necessario a studiare le aggregazioni più utili. Del resto la valorizzazione dei titoli delle Popolari in Borsa fa intendere quanto valore a beneficio dei soci si possa estrarre da banche liberate dalla blindatura dei “signorotti locali” e finalmente affidate a un mercato regolato.

La riforma ha avuto la saggezza , come si accennava sopra, di distinguere tra le grandi Popolari (11 su 37) e quelle medie e piccole che hanno ancora un’impronta cooperativa e un reale legame con il territorio d’origine e che pertanto potranno mantenere l’assetto attuale (voto capitario compreso) o, se lo vorranno, adeguarsi gradualmente ai principi della riforma. Ma non c’è dubbio che farà sentire tutta la sua valenza sull’intero settore permettendo il confronto tra due diversi regimi di Popolari.

Saggio è stato inoltre escludere dalla riforma le Bcc, il cui spirito cooperativo è più forte e che è giusto distinguere e valorizzare dal resto del sistema bancario. Ma per le grandissime Bcc, come quella di Roma che ha un attivo di 30 miliardi, la difesa dell’attuale regime diventa ogni giorno più improponibile. Però anche qui non si può fare di tutte le erbe un fascio. Ci sono Bcc che non stanno più in piedi e che sono un groviglio di inefficienza, sottocapitalizzazione e conflitti di interesse ma ci sono altre Bcc come quelle del gruppo Raiffeisen in Trentino Alto Adige o quelle del circuito Cabel in Toscana che sono gioielli che vanno tenute distinte dal carrozzone della Federcasse.

Il dado comunque è tratto. E la riforma Renzi è solo il primo passo della modernizzazione del sistema bancario. La prossima sfida sarà sulla bad bank.

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