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Banche italiane, le tre vere cause delle crisi

Se si ripercorrono le crisi bancarie di questi anni si rintracciano sempre tre cause alla loro origine: governance barocche e irresponsabilità del management, enormità dei crediti deteriorati, inadeguatezza nella produzione di nuovi servizi bancari

Al tempo dell’entrata in vigore del Testo unico bancario nel 1993, che sancì la trasformazione della banca da istituzione per lo più pubblica in impresa privata e l’affermazione del modello di banca universale, qualcuno chiese se le autorità avessero una propria mappa per gestire la riconfigurazione industriale implicita nei mutamenti promossi con il nuovo quadro regolamentare.

La risposta fu che la selezione naturale da parte del mercato sarebbe stata più efficiente di qualsiasi intervento esogeno, che avrebbe avuto sapore dirigistico. Il sistema da allora si è senza dubbio trasformato, concentrandosi attraverso operazioni one by one, ma non per questo sembra diventato più robusto. Si è di fronte a una sorta di darwinismo a rovescio?

È ozioso anche interrogarsi se si debba trattare questa storia come una serie di episodi singoli, per quanto gravi, o come crisi di sistema.

Quello che conta è l’impatto delle crisi bancarie sull’economia, sul grado di fiducia dei risparmiatori e sulla capacità delle banche medesime di saper svolgere, tramite il credito, azione di disciplina finanziaria e fiscale nei confronti del proprio principale cliente, vale a dire la piccola e media impresa italiana. Questi sono i costi socio-economici veri, al di là di pedanti calcoli in termini di effetti sul contribuente.

Soltanto se si riuscisse a fare un conteggio per quanto approssimato dei loro effetti sul rallentamento dello sviluppo economico del paese, fino al declino di cui ora molti parlano, troveremmo il peso vero delle disfunzioni del sistema.

Ora che una rinnovata politica bancaria viene da più parti invocata, i suoi esiti saranno utili per incidere sulla governance, sulla trasparenza dei servizi bancari e sul rinnovamento dell’industria? A quali condizioni l’educazione finanziaria elevata a interesse pubblico agirà su questi fattori?

Per equità, dobbiamo toccare anche il tasto dei comportamenti opportunistici della clientela in caso di crisi della banca, tema al quale si richiama la posizione dell’ABI favorevole alla pubblicazione dei nomi dei primi cento debitori insolventi del Montepaschi, misura di quanto le banche siano state a loro volta vittime di indebiti condizionamenti da parte di lobby e clienti. Sono comportamenti che si verificano quando il debitore si pone nella posizione di sfruttare il maggiore potere contrattuale, causa indebolimento della controparte, trovando supporto anche nella politica.

Un aneddoto, tratto dalla vicenda del Banco di Napoli, subito dopo la decisione di passare l’enorme massa di crediti malati alla bad bank costituita allo scopo, può aiutare a spiegare meglio il punto.

Ebbene, un nostro caro collega, in posizione di responsabilità nella vigilanza di allora, fu avvicinato da un avvocato che gli chiese gentilmente di controllare se alcuni suoi clienti fossero presenti in quella lista, conservata nella massima riservatezza. Immediatamente quel collega capì che esservi inclusi avrebbe consentito ai debitori di ritardare l’adempimento delle obbligazioni contratte. Ovviamente egli si rifiutò di corrispondere alla richiesta, che avrebbe favorito fin da subito comportamenti di moral hazard da parte di soggetti ancora solvibili. Ma il segreto, come è facile comprendere, durò poco.

Sic transit gloria debitorum atque creditorum! Ci sono numerose citazioni dotte che potremmo a questo punto fare sul rapporto tra apprendimento dai casi del passato e comportamenti futuri, chiedendoci perché questo processo da noi sembra tanto difficile a radicarsi.

Ragionare di queste cose è complicato, anche perché mancano dati, informazioni ed analisi organiche sulle crisi bancarie. Nel formulare questo elenco ci siamo per lo più affidati alla nostra esperienza e ai nostri ricordi. Nella ricerca di fonti attendibili abbiamo trovato traccia di alcuni casi nella Mappa storico-geografico dell’archivio storico di Intesa Sanpaolo, ma non siamo stati in grado di accedervi compiutamente. Esso riguarda in ogni caso le istituzioni creditizie e finanziarie che nel tempo sono confluite in quello che oggi è uno dei maggiori gruppi bancari europei.

I restanti casi sono singolarmente dispersi nelle relazioni periodiche delle autorità, nei resoconti giornalistici del momento, in articoli di qualche volenteroso studioso e nelle documentazioni giudiziarie. All’epoca della rete, non vi è documentazione completa da consultare, per una migliore comprensione della nostra più recente storia bancaria.

Tutte le crisi citate sono state sistemate con interventi di altre banche, con sacrifici a carico dei risparmiatori o dei contribuenti o con una combinazione di queste modalità, ritenendo che il costo sociale del fallimento bancario, piccolo o grande che fosse, sarebbe stato in ogni caso maggiore.

Con queste ripetute rassicurazioni, il sistema è spiaggiato nel 2014 sui lidi dell’Unione Bancaria, con poca consapevolezza circa gli effetti delle nuove regole europee di gestione delle crisi e senza una politica efficace per modificare le cause pervicaci e strutturali che lo avviluppano, come dimostrano le estenuanti trattative in corso con Bruxelles e Francoforte per la soluzione delle questioni ancora aperte.

Queste cause hanno tre nomi:

1) governance barocche e pletoriche basate sul ruolo di soggetti quali le Fondazioni, da un lato vituperate, dall’altro osannate come salvator mundi e su assemblee oceaniche dei soci da palasport, entrambe filigrane societarie che rendono il management irresponsabile, con ricchi bonus a prescindere dai risultati e titoli da capitalizzare, appena usciti, in altre prestigiose posizioni;

2) enormità dei crediti deteriorati frutto della crisi, ma anche di comportamenti lassisti, da moral hazard e selezione avversa, sapendo ex ante che si troverà sempre chi pagherà per i dissesti, cioè i cittadini direttamente o secondo raffinate tecniche transitive;

3) asfitticità nella produzione di nuovi servizi bancari, causati da scarsa attitudine agli investimenti, dato che siamo il paese dove circola ancora più contante tra quelli dell’Eurozona.

Ecco perché non ci sentiamo di prestare attenzione alle due obiezioni che ci pare già di sentire di fronte a questa breve, ma anche lunga e non edificante storia, e che suonano più o meno così. In fondo, la crisi di una banca fa parte dell’essenza del capitalismo, quella distruzione creatrice che dà vita al sistema stesso.

Dopo tutto, il cittadino come risparmiatore e come contribuente non ci ha rimesso più di tanto, trascurando anche il fatto che molte grandi imprese debitrici sono state risanate con i soldi pubblici per ripagare proprio le banche.

Una vera educazione finanziaria dovrebbe trovare sempre più difficile l’accettazione di motivazioni a posteriori, che rievocano la leibniziana dimostrazione del migliore dei mondi possibili. C’è da credere che molti si siano definitivamente stancati di recitare sempre e soltanto la parte di Candide.

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