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Auto, la grande sfida dei chip e la carta Intel-Mirafiori

Sempre più piccoli, sempre più potenti: la geopolitica dei chip contrappone occidente e produttori asiatici. Dalla proposta indecente dell’erede Samsung a quella coraggiosa e prudente del ministro Giorgetti sull’impianto Intel in Europa. I retroscena di una partita da molti milioni di auto, soprattutto elettriche

Auto, la grande sfida dei chip e la carta Intel-Mirafiori

“Adesso mi gioco un chip”.  Sembra un’espressione del gergo del poker ma, ai tempi dei colli di bottiglia che affliggono l’industria, riguarda la fame di semiconduttori che, secondo i calcoli di Stellantis, finora si è tradotta in una mancata produzione di 1,4 milioni di vetture in giro per il mondo. Per limitarsi all’industria dell’auto che nel 2019, pur con 40 miliardi di acquisti, rappresentava solo un decimo del giro d’affari delle pulci elettroniche, necessarie per gli smartphone come per gli elettrodomestici o quasi tutti gli oggetti che si producono oggi nel mondo. 

E così si spiega la proposta indecente di Moon Jae-in, il giovin erede dell’impero Samsung, il colosso che ha scavalcato in graduatoria l’americana Intel in scia ai colossi di Taiwan, i più avanti nella sfida ai chips sempre più piccoli, sempre più potenti. Solo io, manda a dire dalla prigione in cui sconta una condanna per corruzione dell’ex presidentessa, ho l’autorità per far decollare per davvero la nuova fabbrica in Usa (17 miliardi di investimenti) che mi chiedono gli amici di Washington. Ma prima, dicono i suoi avvocati, è necessario che Jae-in possa seguire il progetto. Ovvero, tornare libero.

Di ben altra natura è la sfida italiana, lanciata con coraggiosa prudenza da Giancarlo Giorgetti, il ministro dello Sviluppo Economico, che ieri è uscito allo scoperto affermando che: “Mirafiori soddisfa tutti i requisiti per ospitare una fabbrica dell’Intel”, il colosso Usa che intende realizzare in Europa un polo produttivo di chip, primo passo creare un’alternativa atlantica allo strapotere asiatico nel settore. Non è un’uscita estemporanea, tanto per farsi perdonare la scelta da parte di Stellantis di Termoli quale sede italiana della gigafactory per le batterie, ma una mossa che arriva dopo un lungo percorso. Nei mesi scorsi Giorgetti ha condiviso con il commissario Ue Thierry Breton le premesse del piano Ue per raddoppiare dal 10 al 20% il fatturato europeo nel settore. Ha posto a Bruxelles la questione degli aiuti di Stato, invocando per l’occasione nuove regole, senza le quali la rincorsa a Usa ed asiatici diventa impossibile. 

Il ministro leghista, forse l’unico che gode della fiducia e dell’amicizia di Mario Draghi, ha poi raccolto il frutto dei colloqui che il presidente del Consiglio ha avuto, poco più di un mese fa, con Pat Gelsinger, il neoamministratore di Intel cui Joe Biden ha affidato la missione di ridurre, se non azzerare, il distacco dell’Occidente dai produttori asiatici, la taiwanese Tsmc. 

In questa strategia l’Europa ha un ruolo importante: Intel progetta un primo impianto (20 miliardi di dollari), un hub replicabile nel tempo fino a 8 volte per sostenere le esigenze dell’industria e della difesa europea. Un network diffuso, dunque, ma destinato a dipendere dalla sede dell’insediamento iniziale, punto di partenza di una rete da 100 miliardi di euro o forse più.  Un jackpot, insomma, che vale le sorti di un governo per cui vale la pena di sfidare Francia e Germania che già si sono mosse per assicurarsi il tesoro. 

Ma ci siamo anche noi, ha sillabato martedì Giorgetti che, una volta tanto, non deve temere contestazioni più o meno sensate dei profeti (in ribasso) della decrescita più o meno felice. Torino, già sede dei centri di ricerca Telecom, forte di un Politecnico che è il miglior “cliente” di Leonardo e Stmicrolectronics, cui fornisce una cospicua quota di cervelli (Pasquale Pistorio si è laureato qui) ha le carte in regola per competere. A suo favore poi gioca la collocazione geografica, vicina ai siti Stm di Agrate e Grenoble, ma soprattutto la presenza di un’area industriale attrezzata, quella di Mirafiori, che Stellantis ormai utilizza per meno della metà. Non sarà difficile mettersi d’accordo con Carlos Tavares per rilevare i terreni necessari. Anzi. Come ha dimostrato stamane la trimestrale di Toyota, la migliore del mondo dell’auto, la disponibilità dei semiconduttori è una delle condizioni chiave per assicurarsi il successo in un momento così delicato nella transizione tecnologica. 

Le auto elettriche, rileva Gartner group, sono destinate a utilizzare il doppio dei chips di quelle tradizionali. E, rileva Kpmg, l’elettronica è ormai altrettanto importante dei segreti della meccanica come dimostra Tesla, che ricava 1.200 dollari per veicolo grazie agli aggiornamenti del software, frutto della scelta vincente di Elon Musk di produrre tutto in casa, senza dipendere dai fornitori. Come intende fare Volkswagen, decisa a disegnare in proprio i chips futuri per non dipendere dagli altri, circostanza determinante per avere un futuro nell’auto: batterie e chips, insomma, altrimenti addio. Non solo a Mirafiori ed al Lingotto (venduto fino all’ultimo mattone da John Elkan che non è certo un sentimentale) ma anche alla Motor Valley emiliana. Un pericolo ben noto ad Exor che ha reclutato un mago dei chips, Benedetto Vigna, per presidiare Ferrari.

Forza Giorgetti, insomma. E’ il momento giusto, grazie a Mario Draghi,  per sfruttare gli atout dell’industria italiana.

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