Condividi

Armstrong, la resa di Superman riscrive la storia del ciclismo degli ultimi 15 annni

CICLISMO E DOPING – Armstrong, Superman o buffone? Ha vinto il cancro e sette Tour consecutivi ma di fronte alle accuse di doping il texano getta la spugna: “Basta. Quando è troppo è troppo” – Ma i dubbi restano: la lotta al doping è sacrosanta ma le punizioni devono essere tempestive – Se si doveva fermare Amstrong, era meglio farlo prima

Armstrong, la resa di Superman riscrive la storia del ciclismo degli ultimi 15 annni

Superman si è arreso. Ha vinto il cancro, è stato capace di vincere sette Tour consecutivi dal 1999 al 2005 strabiliando il mondo, ma di fronte alle accuse di doping sistematico, meticolosamente documentate dall’Usada, l’agenzia americana contro le frodi sportive, Lance Armstrong ha gettato la spugna. Il texano ha deciso di non difendersi più, rassegnato a un destino che è già scritto: perdita delle sette maglie gialle, trionfalmente portate sui Campi Elisi parigini, e conseguente radiazione da ogni attività sportiva che per lui, ormai quarantenne ex ciclista, era diventato oggi il triathlon.

Quello che credevamo un autentico Superman era in effetti solo un diabolico buffone che barava affidandosi a medicine proibite che gli permettevano di fare al minuto più pedalate di ogni altro? Stando ai fatti pare così. Ma la logica di “dalli all’untore” si abbatte sul ciclismo con una violenza e un piacere che non trova riscontro in altre discipline sportive. Una logica cui si ribella un campione onesto come Felice Gimondi quando dice che “solo i ciclisti sono sorvegliati 365 giorni all’anno come potenziali delinquenti, peggio di alcuni assassini che restano invece a piede libero o tutt’al più agli arresti domiciliari”. A inchiodare Armstrong è stato il rapporto dell’Usada, quindici pagine che sconvolgono e riscrivono la storia del ciclismo degli ultimi quindici anni.

Per l’agenzia Usa alcuni dei campioni di sangue prelevati ad Armstrong tra il 2009 ed il 2010 sono “perfettamente coerenti con la manipolazione del sangue, compresa quella attraverso l’uso di Epo e/o di trasfusioni di sangue”. Ricorso a prodotti dopanti che risulterebbe esteso a un periodo di anni, dal 1998 al 2009, un decennio in cui il cow-boy texano dopo aver battuto il cancro ha letteralmente dominato la scena ciclistica mondiale. Armstrong ha cercato di difendersi mobilitando il meglio dell’avvocatura statunitense ma l’Usada ha respinto tutti i suoi ricorsi. Tanto che oggi l’eroe decaduto non ha più voglia di combattere. “Basta. Quando è troppo è troppo!”.

Tra i grandi accusatori di Armstrong c’è il suo ex compagno di squadra alla US Postal, Floyd Landis, che ha indicato in Lance il maestro che gli ha insegnato a doparsi. Ma se Landys non evitò di essere pescato positivo tanto da vedersi tolta a tavolino la vittoria del Tour 2006 (assegnata al secondo classificato, lo spagnolo Oscar Pereiro), Armstrong è stato controllato per oltre 500 volte superando sempre tutte le forche caudine dell’antidoping. Del resto un malato di cancro ai testicoli, con un’operazione al cervello per bloccare la metastasi, qualche cura particolare l’avrà pure fatta che magari violava il rigido codice dell’antidoping.

L’Usada non è però una confraternita di matti e incompetenti. L’agenzia elenca una serie di persone che risultano coinvolte in un sistema perverso messo in piedi nel 1998 e sfruttato per aggirare le leggi dello sport almeno sino al 2010, Si parla del medico italiano Michele Ferrari, dello “stratega” belga Johan Bruyneel, del “preparatore” svizzero Jose “Pepi” Martin, dei “dottori” spagnoli Pedro Celaya e Luis Garcia del Moral. Insomma: una multinazionale delle pratiche illecite e bandite dalle leggi sportive di tutto il mondo. Di certo Armstrong, se ha superato tutti i controlli cui è stato sottoposto, non è mai riuscito a superare ed abbattere l’alone di sospetti che il circo delle due ruote ha sempre alimentato di fronte alla sua escalation di vittorie. Vittorie che ne hanno fatto un Superman unico per la sua storia umana, nel campo non solo del ciclismo ma dello sport mondiale. Ecco perché le accuse dell’Usada erano state accolte con malcelata soddisfazione da chi non aspettava questo momento per dire: “Io l’avevo detto….”.

Il ciclismo è da anni abituato all’autoflagellazione e quanto più è famoso il flagellato (si veda il caso di Pantani, trasformato in un attimo da eroe a mostro da cacciare agli inferi) tanto più grande è il piacere di dargli addosso. Non c’è dubbio che il dossier raccolto sul conto di Armstrong è ricco e dettagliato. La lotta al doping è sacrosanta ma le punizioni devono essere il più possibile tempestive. Ne va della credibilità del ciclismo, di cent’anni di Giri e di Tour. Perché è giusto mettere sotto la lente l’attività del dottor Ferrari, su cui da tempo è aperta un’inchiesta condotta dal pm di Padova, Matteo Belletti, ma quando, per rafforzare l’ipotesi della sua attività illecita, si sottolinea come questo medico sia stato l’allievo prediletto di Francesco Conconi, il professore accusato di praticare “doping di Stato” negli anni 80 e 90 nel suo centro di Ferrara, si rischia di finire con il mettere in dubbio anche i successi di fuoriclasse del passato come Francesco Moser, visto che il campione trentino si è affidato ciecamente alle terapie di Conconi per trasformarsi da buon corridore a campione capace di vincere Giro, mondiale e tre Roubaix, oltre che abbattere il record dell’ora fino allora detenuto da Eddy Merckx.

Coppi e Bartali parlavano pubblicamente di ricorso alla bomba che allora era un mix di amfetamine. In un “quaderno” della Gazzetta dello Sport pubblicato nel 1980 in occasione del ventennale della morte di Fausto Coppi, c’era un articolo dello stesso campionissimo in cui scriveva: “Bartali ha giurato di non essersi mai drogato. Un Bartali che giura viene creduto. Ad ogni modo affari suoi. Per me se trovassi, d’accordo con un medico di fiducia, qualcosa che mi facesse andar più forte senza che il mio fisico subisse danni, non esiterei a servirmene. Mi piacerebbe da matti essere un chimico per poter fare la grande scoperta. Nel gruppo so che c’è chi fa anche tre cure in un anno di stricnina”. Anche Anquetil difendeva la necessità di assumere farmaci e praticare trasfusioni in una disciplina sportiva tra le più massacranti e lo stesso generale De Gaulle non gli diede mai contro. Che facciamo? Annulliamo, di fronte a simili ammissioni, anche i successi di Coppi, Bartali e Anquetil? E’ giusto attrezzarsi con gli strumenti più sofisticati tecnologicamente per controbattere e smascherare le droghe evolute dell’ultimissima generazione, ma gli esiti e la relativa punizione in caso di frode devono avvenire nei tempi più rapidi.

Ora se clamoroso è stato il ritardo con cui si è decisa la squalifica di Alberto Contador, arrivata dopo oltre un anno e mezzo dall’analisi effettuata al Tour de France del 2010, le accuse dell’Usada contro Armstrong partono addirittura dagli ultimi anni del secolo scorso, investendo un periodo durante il quale Armstrong è stato controllato molte centinaia di volte senza che gli venisse mai contestato nulla. Ed è qui che le autorità preposte al doping hanno forse sbagliato. Riandando a certi episodi sospetti appare chiaro che si sia usato con il texano, anche perché era appena guarito dal cancro, un atteggiamento benevolo, ben diverso da quello odierno dell’Usada. Ad esempio al termine della tappa Montaigu-Challans nel Tour 1999, il primo vinto da Armstrong, quando nel test del corridore Usa risultò un glucocorticoide: Armstrong si difese dicendo di aver seguito le indicazioni del medico per curare uno sfogo sul soprassella con una pomata (Cemalyt) . Ma secondo la successiva testimonianza di Emma O’Reilly, una collaboratrice ai tempi dell’Us Postal, la realtà sarebbe stata diversa: il texano si sarebbe sottoposto ad una ”terapia” di corticoidi due o tre settimane prima e l’ultima iniezione avrebbe causato la positività.

L’Uci lo assolse perché l’assunzione venne giustificata da una prescrizione medica (fornita a posteriori, ma comunque accettata dagli organismi giudicanti). A proposito del Tour del 1999, nell’agosto del 2005, quando ormai Armstrong aveva annunciato il suo ritiro dopo aver vinto il settimo Giro di Francia, il quotidiano L’Equipe rivelava con tanto di documenti inequivocabili, che tracce di Epo erano state ritrovate in ben sei analisi dell’americano durante quella Grande Boucle. Se si doveva fermare Armstrong, lo si doveva fare allora. Del resto quelli del Tour, pur vantandosi di essere i più severi paladini del ciclismo pulito, non si accorsero nemmeno che un altro vincitore della Grande Boucle, Bjarne Riis nel 1966, era pieno di Epo come rivelò lo stesso corridore danese quando ormai però il reato sportivo era prescritto. Nel caso peggiore di revoca di tutte vittorie di Armstrong che farà adesso Christian Proudhomme?

Non vorremmo essere nei panni del direttore sportivo del Tour che dovrebbe riassegnare le sette maglia gialle del texano al secondo arrivato di ogni edizione dal 1999 al 2005: un autentico caos, una presa in giro per la credibilità del ciclismo. Ma temiamo che dovremo quanto prima ad assistere anche a questa farsa. In particolare Jan Ullrich, che qualche pasticca l’ha pure presa, finirebbe con trovarsi vincitore a tavolino di altri tre Tour ( 2000, 2001 e 2003) dopo averne conquistato uno sulla strada nel 1997. Nell’albo d’oro sempre più fasullo della Grande Boucle entrebbero anche lo svizzero Alex Zulle (1999), lo spagnolo Josepha Belokj (2002), Andreas Kloden (2004) e il nostro Ivan Basso (2005). Una follia. Il meno peggio, se si può dir così, sarebbe lasciare vacante il trono. L’Usada, intanto, ha già avviato la richiesta perché ad Armstrong siano tolti tutti i titoli, anche quelli olimpici, vinti sulla strada. Un atteggiamento che sa di khomeinismo applicato allo sport delle due ruote e a uno dei suoi maggiori interpreti, approvato dai vertici della Wada, l’agenzia internazionale antidoping, che di fronte alla fine di Superman, ha emesso un comunicato in cui ammette che “è un giorno triste per chi ama lo sport e gli atleti mito, ma un esempio di come la cultura della vittoria ad ogni costo prenda il sopravvento sulla competizione vera”.

Commenta