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Amazzonia: l’Europa mette al bando chi contribuisce al disboscamento selvaggio della foresta brasiliana

La legge europea che vieta l’importazione dei prodotti derivati dalla deforestazione da un lato potrebbe avvantaggiare la Cina, dall’altro preoccupa le aziende agricole brasiliane

Amazzonia: l’Europa mette al bando chi contribuisce al disboscamento selvaggio della foresta brasiliana

Contribuisci al disboscamento selvaggio dell’Amazzonia? Ti penalizziamo non acquistando i tuoi prodotti. Questo il principio della recente legge approvata dal Parlamento europeo, e che varrà a partire da settembre 2024 per ognuno dei 27 Paesi membri: è vietato importare qualsiasi materia prima, che sia caffè, soia, carne bovina, cacao, olio di palma, ma anche prodotti derivati come i mobili in legno, se per produrli sono state illegalmente abbattute foreste. Il provvedimento, che è l’estensione a più prodotti di una legge già esistente, è stato anche accompagnato dalla promessa, o quanto meno dalla intenzione dichiarata dall’Unione europea di contribuire al Fondo Amazzonia, un programma di finanziamenti per la tutela del polmone del pianeta istituito dalla Norvegia e al quale partecipa per ora solo la Germania, ma in cui stanno per entrare anche Usa, con 500 milioni di dollari nei prossimi 5 anni, e Regno Unito con 80 milioni di sterline. Si tratta di un meccanismo di ricompensa destinato al Brasile in cambio dell’impegno per la preservazione della foresta amazzonica.

Disboscamento dell’Amazzonia: l’effetto Lula ancora insufficiente

Impegno che tuttavia negli ultimi anni è venuto a mancare, e che anche oggi col ritorno di Lula al potere, non sta producendo del tutto il cambio di marcia sperato dalla comunità internazionale. Lo sforzo del Brasile su questo fronte è ancora insufficiente: nel periodo gennaio-aprile di quest’anno i km quadrati di foresta amazzonica disboscata sono stati 288, il terzo dato più basso di sempre e in forte diminuzione rispetto al record del 2022 con 1.026 km quadrati, ma in compenso ha raggiunto il primato negativo l’arretramento di altre aree forestali del Brasile, come l’importantissimo Cerrado, considerato la savana con la maggiore biodiversità del mondo, poiché conta oltre 6 mila specie di alberi e 800 specie di uccelli, e che si è ridotto di 2.133 km quadrati nel primo quadrimestre 2023, quasi il doppio rispetto a gennaio-aprile del 2021. Ecco perché, secondo WWF Brasile, non si può assolutamente parlare di tendenza al miglioramento: “Intanto perché la stagione secca, più favorevole al disboscamento, deve ancora iniziare – spiega alla Folha de Sao Paulo la direttrice Mariana Napolitano -, e poi perché il dato accumulato relativo all’Amazzonia ormai sfiora i 6.000 km quadrati e solo da quando si fanno i rilevamenti, senza contare che l’ultimo periodo agosto-aprile è stato il peggiore di sempre”.

Brasile: la Cina principale meta delle esportazioni

Il problema è che il Brasile vive di esportazioni di materie prime, soprattutto di soia e di carne bovina, e soprattutto destinazione Cina. Il settore dell’agrobusiness, letteralmente esploso negli ultimi anni, vale ora da solo il 25% di tutte le esportazioni del Paese: nel 2002, anno in cui Lula fu eletto per la prima volta, la percentuale era del 6,6%. Nell’ultimo decennio, le esportazioni agricole hanno superato i 300 miliardi di dollari, mentre nel decennio precedente non arrivavano a 45 miliardi. E Pechino è il principale “colpevole” di questo boom: nel 2022, il 63% della soia e il 43% della carne bovina esportati sono stati acquistati dal gigante asiatico. Ma non c’è solo la Cina: persino l’Argentina, grande produttrice di soia, è diventata il terzo importatore di questa materia prima dal Brasile. E il secondo è la Spagna, a dimostrazione che anche l’Europa ha una fetta di mercato tutt’altro che trascurabile. Viaggiano infatti in direzione del Vecchio Continente il 60% della farina di soia e oltre il 50% del caffè esportati dal Brasile.

La legge europea contro la deforestazione minaccia le aziende agricole brasiliane

Ecco perché la nuova normativa europea, se da un lato potrebbe avvantaggiare ancora di più la Cina, che da un paio di anni ha fatto del Brasile il suo partner preferito, destinandovi la maggior parte dei propri investimenti esteri, dall’altro penalizza e preoccupa non poco le aziende agricole brasiliane. Le quali però dovrebbero anche essere consapevoli che la loro attività è responsabile del 75% delle emissioni di gas serra di tutto il Paese (tra disboscamento, emissione di metano dalla digestione bovina, uso di fertilizzanti e combustibili fossili) e che questo è un dato ormai inaccettabile per la comunità globale. Ne è certamente consapevole il governo Lula, che però non ha gradito l’unilateralità della decisione: “Siamo ovviamente contrari dl disboscamento – ha detto il ministro dell’Agricoltura Carlos Favaro – ma servono dialogo e diplomazia. Senza risorse, il Brasile da solo non può farcela: va considerato che in Amazzonia lavorano 27 milioni di brasiliani, ai quali va garantito un reddito”.

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