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Africa a più facce, ma ora ha cinque campioni anti-corruzione

Come emerge dal libro dell’ambasciatore Mistretta (“Le vie dell’Africa- Il futuro del continente tra Europa, Italia, Cina e nuovi attori”) l’Africa non è più da tempo solo quella stereotipata dei migranti che arrivano sui barconi ma tra le contraddizioni spuntano sorprese incoraggianti come quella dei leader nella lotta alla corruzione, che resta uno dei principali handicap

Africa a più facce, ma ora ha cinque campioni anti-corruzione

Cosa sappiamo dell’Africa? Alzi la mano chi ritiene che le nostre conoscenze sulla grande terra che ha dato origine alla specie umana non siano poche, confuse e molto condite di pregiudizi. Ne è consapevole anche un esperto titolato, Giuseppe Mistretta, un diplomatico che ha trascorso la grandissima parte della sua esperienza professionale vivendo nel continente nero e studiandolo, già ambasciatore in Angola e in Etiopia, dopo aver prestato servizio nella Repubblica democratica del Congo e in Libia, oltre che negli Usa e in Gran Bretagna. Oggi continua a occuparsi degli affari africani ricoprendo l’incarico di Direttore per l’area sub-sahariana presso il ministero degli Esteri.

Per cancellare stereotipi e false conoscenze ha scritto il suo ultimo libro, il quinto dedicato al grande continente. Un libro molto utile. Il titolo è: “Le vie dell’Africa – Il futuro del continente fra Europa, Italia, Cina e nuovi attori”; è edito da “Infinito edizioni”, una casa editrice che pubblica una collana specifica chiamata appunto “Afriche”. Un libro prezioso anche perché, come scrive Romano Prodi nell’introduzione, “le prospettive dell’Africa riguardano tutti noi, specialmente noi europei, e specialmente noi italiani”. Tutti i capitoli sono interessanti per chi voglia approfondire (o solo cominciare a conoscere) la storia del grande continente: perché non è mai decollato? Cosa deve aspettarsi nel prossimo futuro? Quali sono le vie di sviluppo più probabili? E poi il ruolo della Cina, quello dell’Europa, dell’Italia. E quello degli altri Paesi, Russia, Turchia, Stati del Golfo, India, Giappone, i cosiddetti nuovi Attori, come vengono definiti.

Ma soprattutto Mistretta, oltre a offrire nuove informazioni (e lo fa, fornendo le notizie più aggiornate sulla vita dei Paesi africani), cerca di eliminare quelle vecchie e false.

Allora cominciano dagli stereotipi. E da quello che non lo sembra affatto: “Serve un nuovo piano Marshall per far progredire il continente”, quante volte lo avete sentito? Un po’ anche a sproposito. Anzi, si potrebbe dire che oramai un “Marshall” non si nega a nessuno; nel senso che, se non si ha proprio nulla altro da proporre, lo si butta lì e di sicuro fa il suo effetto. Ma entriamo nel merito. Per esempio: quanto costò il piano degli americani (in gergo Erp, European Recovery Program) che contribuì, a partire dal 1947, a rilanciare l’economia europea devastata dalla Seconda guerra mondiale? Secondo gli ultimi calcoli 14 miliardi di dollari per quattro anni, solo due in più di quanto aveva preventivato l’amministrazione del presidente Truman e del suo segretario di Stato, George Marshall, appunto. Negli ultimi cinquant’anni gli aiuti al continente africano – spiega Mistretta – sono stati pari, per difetto, a un trilione e mezzo di dollari. Più o meno 20 miliardi l’anno, invece dei 3,5 destinati all’Europa dal piano Marshall. Quindi, non è questione di soldi, perché non sono mai mancati. Anche se questo non vuole dire che l’autore sposi la tesi di chi, come l’economista zambiana Dambisa Moyo (“La carità che uccide”, 2009), ha sostenuto che sono stati proprio gli aiuti, provocando una catena infinita di corruzione, inefficienza e dipendenza, a fermare lo sviluppo dell’Africa.

Che cosa è successo allora? Perché l’Africa non è decollata? Se lo chiede Mistretta e ce lo chiediamo noi.

Mistretta elenca quelli che sono a suo avviso i principali problemi che continuano a inchiodare il continente: “Immaturità politica, corruzione, applicazione di schemi socialisti in economie non avanzate, clima non sempre idoneo per gli investimenti e affari, guerre e tensioni politiche, attitudine predatoria e non lungimirante del colonialismo europeo”.

1) LA GIOVANE ETÀ DEGLI STATI AFRICANI

Prendiamo l’immaturità politica, per esempio. È difficile da considerare una questione verificabile come un esperimento scientifico, ma è senza dubbio una base solida dalla quale partire nei ragionamenti non tendenziosi sul continente. Noi spesso dimentichiamo che gli europei hanno iniziato a costruire i propri Stati a partire dal XVI secolo, mentre gli africani nella migliore delle ipotesi hanno cominciato 60 anni fa. Ce lo ricorda Mistretta, facendo notare che il primo Stato dell’Africa sub-sahariana a raggiungere l’indipendenza fu il Ghana, nel 1957, l’ultimo è stato il Sud Sudan, nel 2011. “Fra queste due date – continua l’autore – si colloca l’affrancamento dal dominio coloniale degli altri Paesi dell’area. L’Eritrea è indipendente dal 1993; la Namibia dal 1990; Mozambico e Angola lo sono dal 1975”. Quindi – è il ragionamento di Mistretta – “se la giovane età degli Stati africani non è l’unico motivo che spiega il ritardo nello sviluppo continentale, è però quello fondamentale: occorre dare tempo alla storia di svolgere i suoi processi, e senza dubbio cinquant’anni o sessanta non bastano per affermare stabilmente il progresso, il benessere, la democrazia, la pace e la libertà”.

2) I MILLE VOLTI DELLA CORRUZIONE

La seconda causa del ritardato sviluppo dell’Africa, sulla quale si sofferma Mistretta, è la corruzione e sotto questa voce, in Africa come dappertutto nel mondo, dobbiamo collocare le varie sfumature del reato: dall’appropriazione indebita all’estorsione, passando per concussione, clientelismo, nepotismo e vari tipi di brogli.

E per dare un’idea Mistretta ricorda come “il tesoro personale di Mobutu ammontasse a circa 5 miliardi di dollari, sottratti alle casse dello Zaire, l’attuale Repubblica democratica del Congo, nel periodo della sua dittatura, lunga 32 anni”. Mentre quello del leader libico Gheddafi è stato valutato in circa 60 miliardi di dollari, mai completamente localizzati fra l’altro. Ma anche l’ex presidente dell’Angola, Eduardo Dos Santos, aveva messo da parte per tempi migliori il bel gruzzolo di 2 miliardi di dollari, pari alla cifra raccolta dall’ex presidente del Sud Africa Jacob Zuma, finito però per questo sotto processo. Una cifra misera invece, “solo” cento milioni di dollari in contanti, fu trovata negli appartamenti dell’ex presidente del Sudan, al-Bashir. Ovviamente la corruzione esiste a tutte le latitudini, ma – ritiene Mistretta – in Africa è il problema dei problemi, perché “viene favorita dalla povertà diffusa, specie al livello degli amministratori locali, che sono più vulnerabili in quanto spesso sottopagati, oltre che scarsamente formati; dalla mancanza o inefficienza del sistema dei controlli incrociati fra le istituzioni; dalla convinzione, diffusa negli establishment, che il potere implichi quasi naturalmente un certo grado di arbitrio, tale da consentire l’accaparramento di denaro e beni”.

Non che le cose non stiano cambiando, soprattutto grazie a una nuova leva di capi di Stato che ha fatto della lotta alla corruzione la prima delle battaglie per la rinascita africana. E Mistretta ne cita alcuni: Paul Kagame (presidente del Rwanda), Joao Laurenço (Angola), Cyril Ramaphosa (Sud Africa), Abiy Ahmed (Etiopia) e Muhammadu Buhari (Nigeria). Ma è una questione che devono affrontare anche i Paesi avanzati – sostiene Mistretta – perché è anche nel loro interesse sostenere lo sviluppo del continente. Cosa possono fare? Formare, formare, formare: soprattutto nuove leve di controllori, prima fra tutte le polizie, a partire da quelle fiscali.

3) LA POLITICA POST-COLONIALE

Un altro motivo per cui l’Africa è rimasta indietro nello sviluppo – ricorda Mistretta – è quello delle scelte politiche praticate dopo la decolonializzazione. Il mondo era diviso in due, ce lo ricordiamo tutti. E anche l’Africa: alcuni Paesi scelsero la via sovietica (Mozambico, Angola, Etiopia, Burkina Faso, Guinea, Ghana e Somalia); altri quella occidentale (Repubblica democratica del Congo, Sudafrica, Kenya, Uganda, Costa d’Avorio e Gabon). Alla fine dei conti nessuna delle vie percorse ha portato grossi progressi nei Paesi africani, mentre in alcuni di essi la situazione è stata aggravata da guerre civili (in Angola e in Mozambico per esempio); o da guerre tradizionali (fra Somalia ed Etiopia, o fra quest’ultima e l’Eritrea, o ancora fra Libia e Ciad). Eppure quando le leadership si sono mostrate più preparate ed efficienti il decollo economico c’è stato nonostante le guerre di ogni genere. È il caso del Rwanda, dove nel 1994 si è verificato uno dei più brutali genocidi della storia, ma che ora viene citato come modello dell’Africa che avanza.

4) LE MANI CINESI SULL’AFRICA

Continuando a parlare di notizie approssimative che abbiamo sull’Africa, una è senz’altro quella che riguarda “le mani cinesi” sul continente. Certo, ci ricorda Mistretta, la Cina ha costruito circa il 33 per cento delle opere infrastrutturali africane e ne ha finanziato il 21 per cento. E Pechino è visibilmente il più potente investitore individuale in infrastrutture in Africa e ha una visione di lungo termine, con agende politiche più o meno nascoste. Ma a guardare i numeri, è l’Europa il più grande partner per l’Africa. Se la Cina effettua investimenti diretti per circa 40 milioni di euro, quelli europei sono sei volte tanto, e cioè oltre 220 miliardi di euro. Per quanto riguarda invece l’import-export, lo scambio fra l’Ue e l’Africa ammonta a 235 miliardi di euro, il doppio di quello con Pechino. Insomma, siamo noi europei a tenere in mano il gioco africano e non i cinesi. E il nostro gioco, anche quello specificamente italiano, parte da ragioni storiche e ideali che ci portano (in cambio dei programmi di aiuto) a chiedere conto ai partner africani del loro comportamento in merito a diritti umani, civili e di progresso sociale. Cosa che il governo di Pechino non fa per ovvi motivi e che lo rende talvolta agli occhi di alcuni governanti africani più facile da frequentare.

5) L’ITALIA E L’AFRICA

Osservazione che conduce a un altro stereotipo da eliminare e che riguarda la politica estera dell’Italia in Africa. Non è tutta barconi da affondare o salvare a seconda del colore del governo: ha una tradizione antica e solida, che risale agli anni del dopoguerra e della prima Repubblica. Tradizione tanto apprezzata che spesso l’Italia è chiamata a fare da interprete delle esigenze africane all’interno del gruppo dei 27 membri europei, ci ricorda Mistretta nel capitolo che riguarda il nostro Paese. Non dovremmo fare altro che continuare per questa strada con “più convinzione e intensità”, come sostiene Mistretta. “Se tutti i nostri competitor non fanno mistero di avere delle proprie agende e strategie nazionali – spiega – non ci sarebbe nulla di male a sostenere anche pubblicamente che la nostra sfera di interessi è il Mediterraneo allargato, che quindi arriva a comprendere la parte settentrionale dell’Africa, la penisola araba e il Golfo. Tutti questi scenari sono ormai strettamente legati e interconnessi e trovano ad esempio dei punti di incrocio nelle aree del Sahel, nel Corno d’Africa e nel golfo di Aden, su cui il nostro Paese, non solo per i motivi migratori che vengono immediatamente in considerazione, si può ritenere coinvolto”.

Insomma, è oggettivo che l’Italia sia un Paese importante in Europa e nel Mediterraneo: dovremmo crederci un po’ di più anche noi, come avrebbero concluso i nostri nonni. E come crede fondamentalmente Giuseppe Mistretta.

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