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Ad Arte Fiera Bologna (24-27 gennaio) va in scena la poetica di Silvia Celeste Calcagno

Dal 24 al 27 gennaio va in scena Arte Fiera Bologna, una delle principali fiere europee di arte moderna e contemporanea – Alla rassegna emiliana parteciperà anche l’artista ligure Silvia Celeste Calcagno, classe ’74.

Ad Arte Fiera Bologna (24-27 gennaio) va in scena la poetica di Silvia Celeste Calcagno

Dal 24 al 27 gennaio va in scena Arte Fiera Bologna, una delle principali fiere europee di arte moderna e contemporanea. Alla rassegna emiliana parteciperà anche l’artista ligure Silvia Celeste Calcagno, classe ’74, come consuetudine presentata dalla sua Galleria di riferimeto PH – Neutro con sedi a Verona e Pietrasanta (www.ph-neutro.com).

Silvia Celeste Calcagno fa dell’antitesi la chiave della sua poetica. I contenuti dei suoi lavori, installazioni performative, racchiudono la dicotomia: bellezza e dolore, carnalità e anima, sangue e pensiero. In un’ossessiva riproduzione fotografica di sé, Silvia Celeste Calcagno parla della vita attraverso la morte; del sonno attraverso l’incubo; del dolore attraverso il corpo. Cercandosi e perdendosi nella sua stessa immagine riflessa. 

Scrive di lei il critico d’arte torinese Luca Beatrice: “Quando nel 1976 Francesca Woodman, a soli 16 anni, chiede all’operatore di tagliare dall’inquadratura della scena la sua testa, ha già intuito lo schema: l’artista/performer deve sfumare nell’obiettivo, scomparire per poi mostrarsi. Il corpo nudo,  stigmatizzato da effetti visivi di simultaneità, ombre e movimento, accentua la sua fragilità, frammentato e scomposto”.

“La pratica di ritrarsi usando il proprio corpo come materia prima è comune a molti artisti, dai primi video realizzati da Bruce Nauman e Vito Acconci, agli inizi delle loro rispettive carriere nei tardi anni Sessanta, e al modus operandi di artiste e performer che nel corso del decennio successivo hanno trovato nell’autorappresentazione di sé la strada per veicolare messaggi di denuncia ma anche grida di dolore interiore, da Gina Pane a Marina Abramovic. Anche Silvia Celeste Calcagno sceglie di “usarsi” come soggetto; non tanto per un piacere narcisista di lievitazione dell’Io – trappola in cui cadono tanti – piuttosto per controllare meglio la regia delle azioni che mette in scena. Non è di sé che vuole parlare, poco le interessa.

Le sue sono rappresentazioni di stati emotivi, dove la presenza è data per assenza, il vuoto si trova nel pieno e la vita è continuamente alternata a un profondo senso di morte. Vale la regola degli opposti. Il corpo è al centro: camera fissa, azioni ripetute, quasi un’ossessione che può durare ore, giorni. Il risultato è un muro – letterale – composto di centinaia di scatti, pressoché coincidenti, inframezzati solo dal respiro del primo clic con il successivo. Sono quelle che Silvia Celeste Calcagno definisce “constatazioni”, alla maniera di Gina Pane che considerava l’opera, propriamente detta, la documentazione fotografica e non lo svolgimento effettivo della performance, ovvero la “constat photographique”. Al lavoro di Silvia Celeste  segue un processo di perpetuazione dell’immagine in formelle di gres sulle quali l’impressione si corrode, consuma e comprime la leggerezza dello scatto nel risultato finale simile a postcard datate e neoromantiche.

Il movimento già contenuto in ogni singolo frame è, nella visione d’insieme, una sequenza fotografica che ricorda gli studi del libro “Animal Locomotion” di Eadweard Muybridge quando nel 1887 conquistò il vasto pubblico, più voyeurista, che l’élite scientifica a cui avrebbe dovuto rivolgersi. Lo sviluppo sulle pareti di pannelli composti in ceramica, insieme alle serie di fotografie, suggerisce nelle installazioni dell’artista residente ad Albissola, storico centro della ceramica italiana, un movimento al di là da quello del fotogramma isolato. Nella visione globale la narrazione si fa più articolata e trova la sua definizione in minivideo e interventi audio che accompagnano, a chiuderlo, il puzzle. Scientifica, certo non bucolica, è la pratica creativa di Silvia Celeste Calcagno che ha un passato da ceramista professionista e ha acquisito l’esperienza dei maestri a sorreggere la peculiarità della mano”.

“Sempre di Attesa si tratta nel video omonimo di Silvia Celeste Calcagno perso tra un numero indefinito di Ofelie addormentate e fluttuanti. Ultima interpretazione di cigni bianchi che lasciano il riflettore acceso sullo stage vuoto. “Goodnight  Ladies” canterebbe Lou Reed.Così, la sensualità formale di una bocca in primissimo piano che si deforma – Stare – sotto l’azione delle mani di un secondo attore, devia l’attenzione erotica verso un’eccitazione perversa e artificiale. “Il sex appeal dell’inorganico” (Mario Perniola, 1994) non guarda alla bellezza ma all’uso sadico e masochista del corpo alla stregua di macchine le cui potenzialità, virtuali, possono essere abusate senza filtri.

Stare è sinonimo di uno stato degenerativo della comunicazione, è l’impossibilità a reagire, la condizione passiva di un dialogo per un solo attore.Ma è la tecnica a collocare le opere di Silvia Celeste in una cornice sperimentale che amplifica le potenze del mezzo. L’uso della fotografia è pretesto, constatazione, di un risultato finale che trasforma l’immagine iniziale nel suo archetipo. Il trasferimento su gres a 1250 gradi centigradi satura i contrasti e brucia la luminosità dei bianchi e neri. Sembrano interventi digitali di alterazioni di curve cromatiche, l’evoluzione formale della matericità. La pratica risolve l’equazione tra artigianato e contemporaneo. Fotoceramica sperimentale, sapiente nel risultato reso unico dalla conquista dell’artista di una tecnica mai ripetibile in edizioni numeriche, come accadrebbe con la fotografia, duplicabile all’infinito.

L’immagine può essere sì ripetuta ma ciascuna copia è imprevedibile e alterata (secondo la legge del copyright) al 70% dall’originale. L’escamotage tecnico per sfuggire dalla “riproducibilità dell’opera d’arte” (Walter Benjamin, 1955) e dalla “copia” in senso stretto, è in voga tra gli esponenti della yBa, i compagni della scuderia Saatchi. Mat Collishaw ha trovato vincente la stessa regola adottata da Silvia Calcagno: impressioni di immagini su tante formelle di ceramica che parcellizzano l’immagine, come nei dipinti di Chuck Close, un numero incalcolabile di pixel quanti ne vorrebbe la fotografia digitale. L’archeologia iconica si contamina con l’estetica imposta dai media contemporanei e l’artigianalità diventa espediente per preservare la categoria dell’unicum artistico.”

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