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Abravanel: “Aristocrazia 2.0, la classe dirigente che serve all’Italia”

INTERVISTA A ROGER ABRAVANEL, guru della consulenza aziendale, director emeritus di McKinsey e saggista – “Il nostro è un Paese che non ama i valori del merito, della competizione e dell’aspirazione all’eccellenza ma se la nostra economia è ferma da 40 anni non è certamente casuale” – Chi sono i veri nemici della meritocrazia e cosa si può fare per selezionare una nuova classe dirigente e riformare in senso moderno il capitalismo italiano – Che cosa significa l’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi e che cosa si vuole da lui

Abravanel: “Aristocrazia 2.0, la classe dirigente che serve all’Italia”

Basta con una classe dirigente, sia politica che imprenditoriale, che nasce dal familismo e dai privilegi che il nepotismo riserva ai soliti fortunati. Per uscire dalla palude della decadenza, l’Italia ha bisogno non solo di riforme ma di una nuova élite basata sulla meritocrazia per spazzare via i privilegi e valorizzare finalmente la competenza e il talento. La premiership di Mario Draghi è un buon viatico. Non è la prima volta che Roger Abravanel, guru della competenza aziendale e per lunghi anni Direttore della McKinsey Italia, vera miniera di manager, si misura su questi temi, affascinanti e al tempo stesso problematici. Ma nel suo nuovo saggio “Aristocrazia 2.0 – Una nuova élite per salvare l’Italia”, edito da Solferino, la ricerca di una nuova classe dirigente diventa un progetto sistematico e parte integrante della battaglia per un nuovo e più moderno capitalismo. La meritocrazia, anche quando è pensata insieme alla ricerca di pari opportunità di partenza, non è un valore diffuso nel nostro Paese ma il fatto che in pochi giorni il libro di Abravanel stia scalando le classifiche delle vendite vuol dire che forse qualcosa sta cambiando e che l’arrivo di Mario Draghi alla guida del Governo può alimentare speranze fino a qualche tempo fa nemmeno immaginabili. Ma sentiamo che cosa ne pensa Abravanel in questa intervista a FIRSTonline.

Ingegner Abravanel, è da pochi giorni uscito un suo nuovo libro che si intitola “Aristocrazia 2.0 – Una nuova élite per salvare l’Italia”: come e da chi dovrebbe essere selezionata questa nuova classe dirigente?

“Chiariamo subito che non si tratta di dirigenti pubblici considerati comunemente “casta” di fannulloni e corrotti e che io conosco invece come vittime di una paralisi decisionale causata da uno strapotere giuridico. Nel mio libro io parlo delle élite dell’ecosistema economico e sociale (gli imprenditori, i banchieri, i professionisti, i media, i docenti universitari). L’altra cosa da chiarire è che non si tratta di avere un’élite più competente, ma più selezionata. Nelle società meritocratiche la meritocrazia è competizione. Questo nel nostro Paese non è capito”.

Lei sostiene che la meritocrazia è essenziale per salvare la nostra economia nel post-Covid, ma non bastano il Recovery Plan e l’aristocratico 2.0 per eccellenza come Mario Draghi alla guida del nuovo Governo?

“La nostra economia è ferma da 40 anni (e non da 10 o 20, come comunemente si crede), perché non si è adeguata alle trasformazioni dell’economia dall’era industriale (i “distretti”) a quella post-industriale dei servizi globali (commercio organizzato, telecom, turismo) e adesso all'”economia della conoscenza” (innovazione, digitale, scienze della vita, ecc.). Nell’era post-industriale e soprattutto nell’economia della conoscenza il capitale umano, il talento, il sapere diventano fattori chiave e così la meritocrazia è essenziale”.

Ingegnere, lei sostiene che la meritocrazia dovrebbe essere il criterio di base della formazione della nuova élite e che l’Italia non dovrebbe accodarsi agli Usa, dove infuria la polemica sulla meritocrazia senza pari opportunità. Ma, proprio perché siamo in ritardo nell’uso della meritocrazia, non sarebbe il caso di fare tesoro dell’esperienza americana e dare sì largo spazio alla meritocrazia ma accorciando le diseguaglianze sociali?

“Il responsabile dell’esplosione delle diseguaglianze non è la meritocrazia, ma l’economia della conoscenza. Se Zuckerberg e Bezos sono miliardari non è colpa della meritocrazia che ha fatto sì che fossero selezionati per le IVY League che sono diventate piattaforme per il loro successo. La “colpa” è dell’economia della conoscenza che ha creato un premio per i migliori laureati nelle IVY League facendoli miliardari. Non a caso i 10 uomini più ricchi d’America sono laureati nelle IVY League. Voglio dire che la diseguaglianza è da combattere con altri mezzi, non eliminando la meritocrazia come vogliono alcuni liberal americani che vorrebbero estrarre a sorte l’accesso ad Harvard. Togliere la meritocrazia vuol dire togliere la motivazione (il “sogno americano”) a milioni di giovani che, tentando di emulare Bill Gates e Michael Bloomberg, cercano di entrare nelle migliori università e che, anche se non tutti entrano nelle IVY League, si laureano e migliorano se stessi e forniscono capitale umano all’economia della conoscenza. Quello su cui in America si può agire è ridurre un po’ le impari opportunità create da questa aristocrazia (appunto 2.0) che si è creata e in base alla quale i genitori iperlaureati e miliardari grazie alla meritocrazia passano ai figli non tanto i privilegi del proprio denaro, quanto una maggior facilità di accesso alle migliori università. Da noi purtroppo la meritocrazia non è mai nata e l’aristocrazia è ancora quella vecchia che tramanda potere e ricchezze di padre in figlio e non quella 2.0 che fa sì che il privilegio che i figli hanno è l’aiuto per l’accesso alla migliore istruzione superiore. Da noi i figli degli imprenditori si laureano in mediocri università (quando si laureano) ed entrano subito a fare gli eredi in azienda. Il sistema non solo è ingiusto, ma non crea il talento al vertice delle imprese che è necessario per farle diventare grandi approfittando dell’economia della conoscenza”.

Copertina libro Abravanel

Il suo libro individua molti nemici della meritocrazia in Italia, dalle università alla burocrazia, dai sindacati alla Confindustria fino al potere giudiziario: quali sono esattamente le loro colpe?

“Dividiamoli in tre gruppi. Il primo e sicuramente quello con più colpe è l'”ecosistema capitalistico antimeritocrazia”, costituito da imprese più familiste che famigliari e da chi le guida, dalle banche, dai media, dalle associazioni a reti chiuse e “salotti”, con un obiettivo: ridurre la competizione e il libero mercato. Così facendo hanno provocato una vera e propria “ecatombe” delle grandi imprese industriali del secolo scorso (esempio: Ferruzzi-Montedison e Fiat, che è stata di fatto venduta ai francesi), la vendita alle multinazionali dei brand del Made in Italy e un digital gap tra i peggiori d’Europa. Il secondo gruppo contrario alla meritocrazia è invece il sistema universitario che si è chiamato fuori dalla competizione globale del sapere creata dall’economia della conoscenza. Non a caso la miglior università italiana, secondo QS, è il Politecnico di Milano che è la numero 149 del mondo. I docenti universitari italiani rifiutano la valutazione e la competizione e, laddove all’estero le università sono i templi della meritocrazia, da noi sono diventate i bastioni del nepotismo”.

E il terzo gruppi degli avversari alla meritocrazia qual è?

“Il terzo è una burocrazia e non per colpa di presunti fannulloni della PA ma di una paralisi decisionale provocata dallo strapotere della classe giuridica. Strapotere che abbiamo dato noi italiani che riteniamo che la nostra PA e la politica siano più corrotte di quella nigeriana e russa e chiediamo una magistratura forte che le controlli ed eviti anche il “potere dell’uomo forte”. Ma è sbagliato: Tangentopoli è avvenuta quasi 30 anni fa ed in Germania, dove hanno avuto Hitler, non esiste il CSM e procuratori e giudici sono nominati e promossi dal Governo ma hanno una valutazione ferrea della loro performance con una meritocrazia da settore privato che nella nostra magistratura ci sogniamo, perchè il sindacato (l’ANM) non ha pesi e contrappesi”.

Nel suo nuovo saggio lei parla di mancanza dei valori della meritocrazia nella nostra società: perchè?

“Quando scrissi il precedente libro “Meritocrazia” il successo non mancò di certo, ma anche chi applaudiva l’idea della meritocrazia non capiva bene cosa voleva dire e cioè competizione, ambizione e aspirazione all’eccellenza. Da noi si accetta il concetto di “merito” solo in senso negativo (“quello non si merita il posto che ha avuto”) e non positivo (maggior merito vuol dire maggiori premi). Questo avviene perché da noi manca l’ingrediente essenziale del capitale sociale delle società meritocratiche: la fiducia. Per esempio, non si ha fiducia che chi eccelle e fa molti profitti lo faccia legalmente e quindi si è contro il profitto. Si è contro tutte le classifiche e valutazioni perché si pensa che siano truccate (quelle del calcio dagli arbitri). Così la meritocrazia ha difficoltà a nascere”.

A conclusione del suo libro lei avanza tre proposte per far nascere la meritocrazia in Italia e salvare l’economia post-Covid: esattamente di che cosa si tratta?

“Le mie proposte derivano dai tre problemi di cui sopra e cercano di far moltiplicare gli aristocratici 2.0. La prima è evitare lo statalismo di ritorno di salvataggi che ci porterebbero ad avere 3-400 Alitalia in due anni, utilizzando i fondi pubblici per attrarre capitale privato nazionale ed internazionale smart mobilitando aristocratici 2.0 italiani in Italia e all’estero (fondi private equity, venture capital, infrastrutture, imprenditori tecnologici, ecc.). La seconda è una vera riforma dell’università che riconosca che solo poche (10?) università italiane possono ambire ad essere research universities di eccellenza e le altre devono essere ottime università di didattica. In entrambi i casi nel libro spiego il cambiamento epocale da realizzare. La terza proposta è il miglioramento dell’efficienza della burocrazia, creando dei check and balances al potere giuridico per responsabilizzarlo nei confronti del Paese”.

La nascita del Governo Draghi con la presenza di tanti tecnici di indiscusso valore può avvicinare il sogno di creare una classe dirigente basata su criteri più meritocratici e meno clientelari?

“Effettivamente Mario Draghi è un vero aristocratico 2.0 con tanto di dottorato al MIT, carriera al vertice di istituzioni pubbliche italiane ed internazionali (Tesoro, Bce), un’esperienza alla Goldman Sachs, e in Italia sembra finire la stagione dei populisti. Draghi viene nominato premier proprio quando esce il mio libero ma non si tratta di preveggenza ma solo di fortuna. Il Paese sembra appoggiare entusiasticamente il Governo di un vero “aristocratico” prima maniera- quella dei Greci e del “Governo dei migliori”- ma non sarà il passaggio dall'”uno vale uno” al “Draghi salva tutti” a costituire quella svolta che manca da 50 anni. Io non pensavo al Governo dei migliori nel senso dell’aristocrazia greca perché non penso che il nostro Paese sia bloccato perché abbiamo avuto cattivi governi ma perché la società nel suo complesso ha rifiutato i valori della competizione aperta che sono il fondamento della meritocrazia, rifugiandosi nel familismo, nella protezione dello Stato (meritocrazia della carte bollate), nella tolleranza della piccola corruzione che, a sua volta, ha prodotto un circolo vizioso delle regole (regole sbagliate- evase- modificate in peggio- evasione totale e il circolo riparte) e uno strapotere dell’apparato giudiziario rispetto a quello amministrativo. Ecco perché la soluzione non può essere solo Draghi, l’aristocratico 2.0. Più che dare potere ai pochi “aristocratici 2.0″ che abbiamo, il Paese ha bisogno di farne nascere altri, con le iniziative di cui abbiamo parlato. Per questo ciò che si vuole da Mario Draghi, aristocratico 2.0, non è solo la sua competenza, in alternativa all’incompetenza di chi lo ha preceduto, ma le sue doti di leadership e i suoi valori”.

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