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A Hollywood tra la piattaforma di streaming e i contenuti chi vale di più?

Fino a ieri “Content is the king” era la bussola della capitale del cinema ma gli sviluppi della tecnologia hanno capovolto la situazione e le menti più brillanti dell’industria del divertimento sono ormai convinte che oggi “Platform is the king” – Il caso di Netflix ma anche di Amazon e Apple e il punto di svolta della Disney

I sonni agitati di Hollywood 

Non è solo la torbida personalità di Harvey Weinstein, il suo figlio di maggior fiuto imprenditoriale, a togliere il sonno a Hollywood. È anche il futuro. La fondatezza del postulato “Content is the king”, alla base della ragion d’essere della capitale del cinema, è seriamente messo in discussione. Per molto tempo Hollywood si è sentita al sicuro dietro le parole di Jeff Bewkes, l’aitante e assertivo boss di Time Warner oggi in uscita, che aveva paragonato i servizi di streaming come Netflix all’esercito albanese alla conquista del mondo; un’armata di scamiciati che egli vedeva disarmata, perché priva delle armi pesanti, i contenuti. 

Per averli Netflix doveva strappare dei lauti assegni e versarli nelle casse dei grandi conglomerati media che controllavano il business del cinema e della televisione. Oggi la situazione è proprio cambiata. Netflix i contenuti se li produce e, siccome sa quello che il pubblico vuole, manda a segno un colpo dopo l’altro. Sta investendo sei miliardi di dollari nella produzione di originals di ogni tipo, serie Tv, film, documentari, video. C’è pure Amazon che si è messa a imitare Netflix, mietendo riconoscimenti e apprezzamenti tra cui svariati Emmy award e un Oscar. Apple ha promesso di far la stessa cosa, anche se Tim Cook giura che la Apple non è un disruptor ma un alleato dell’industria tradizionale. C’è poi Hulu, controllata dai grandi gruppi di Hollywood, che per stare sul mercato non ha altra scelta che buttarsi a produrre contenuti e quindi finisce col trasformarsi in un ennesimo competitor di Hollywood. Ci sarebbe anche Facebook, ma lasciamo perdere. 

Due delle menti più brillanti di Hollywood, Bob Iger, ceo di Disney fino al 2019, e Jeffrey Katzenberg, uno dei maggiori innovatori di contenuto di tutta l’industria del divertimento, sono ormai convinti che occorra una brusca correzione di rotta inseguendo un nuovo postulato: “Platform is the king”. Il che significa dire che la piattaforma è più importante del contenuto e che il contenuto deve aggiornarsi in base al nuovo ambiente di fruizione creato dalle piattaforme e dalle tecnologie. 

Disney a un punto di svolta 

Bob Iger, nell’annunciare che Disney toglierà tutti i contenuti da Netflix per offrirli attraverso due nuove piattaforme di streaming proprietarie (una per lo sport e l’altra per i film e la televisione), sembra avere in testa questo ragionamento: così come Netflix ha saputo produrre contenuti di qualità tali da competere con il mainstream di Hollywood e della televisione via cavo, così Disney può costruire un proprio servizio di streaming in grado di competere con Netflix e i tecnologici. Il punto è che Disney deve trasformarsi come cultura, mentalità e operatività in una compagnia tecnologica e di software. Bisogna ribaltare l’impresa. Il peso specifico di Disney è però consistente. 

Nonostante che Disney parli di streaming dal 2006, finora non è riuscita a fare molto perché non ha voluto abbracciare il nuovo modello di business a scapito di quello esistente che ha continuato a mostrarsi vitale e a macinare profitti. Adesso, stando alle dichiarazioni piuttosto perentorie di Iger, sembra arrivato il tipping point. La correzione del modello di business finora non è riuscita a nessun gruppo media tradizionale. Le loro incursioni nel terreno della tecnologia sono state patetiche e totalmente prone al business tradizionale. 

Un dilemma simile a quello della Disney è di fronte alle grandi case automobilistiche, con business multi-miliardari, di fronte alla sfida dell’auto senza guidatore. L’unico a pensare che il modello T dell’auto senza guidatore potrà nascere solo dalla integrazione tra un gruppo tecnologico e un operatore tradizionale è il nostro Marchionne, tutti gli altri sono buttati in un’impresa autarchica che lascia piuttosto perplessi sul suo esito. 

?La metamorfosi di Disney è possibile? 

Disney, però, sembra davvero arrivata a una decisione irreversibile. Vuole affidare il suo futuro nello streaming alla stessa società tecnologica di New York che ha costruito HBO Now e che opera nel campo del video streaming dal 2002: Bam Tech. Nel 2016 ha acquisito per un miliardo di dollari il 33% di Bam Tech e nell’agosto 2017 ha deciso di salire al 75% sborsando un altro miliardo e mezzo di dollari per il 42%. Ha quindi chiamato a dirigerla Michael Paull, 46 anni, che proviene da Amazon dove ha supervisionato il lancio di Prime Video e dei canali Amazon. Bam Tech è stata scelta dopo che il CdA di Disney ha abbandonato il progetto di prendere il controllo di Twitter, troppo problematico per il brand “pulito” di Disney dopo che sul microblogging circolavano troppi contenuti politicamente scorretti. 

Gli analisti hanno accolto favorevolmente la svolta di Disney in direzione dello streaming, ma c’è un comune atteggiamento di attesa, soprattutto per i costi dell’operazione. Gli analisti stimano le sole spese di marketing in 150 milioni di dollari all’anno. Poi ci sono i mancati ricavi derivanti dal venir meno del licensing dei contenuti a Netflix e a terze parti che sono stimati in mezzo miliardo di dollari all’anno. 

Al di là dei costi, i dubbi principali degli analisti riguardano la capacità di Disney di cambiare la propria cultura incentrata sul contenuto e piuttosto aliena in rapporto alla tecnologia. Il cammino di Disney nei nuovi media è disseminato di fallimenti. Già al tempo della cessione di Pixar, Steve Jobs intuì questa debolezza del team Disney e pretese, ottenendola, da Bob Iger la completa autonomia per Pixar che continuò a operare come una navicella separata dall’astronave Disney. Per di più Bam Tech è più un servizio tecnico di trasmissione dati che tecnologico; non ha ancora sviluppato gli algoritmi di personalizzazione, di tracciamento e di analisi dei dati che hanno portato in orbita Netflix, facendone il custode dei gusti del pubblico in fatto di divertimento. 

Questa volta, però, può essere differente perché non esiste un’opzione alternativa per Disney, e questo sentiment potrebbe essere il propellente per cambiare la cultura aziendale e il modello stesso di business. 

La nuova TV di Jeffrey Katzenberg 

Jeffrey Katzenberg ha bisogno di poche presentazioni. È stato l’artefice del rinascimento degli studi di animazione della Disney negli anni 90 e successivamente, con Steven Spielberg e David Geffen, il fondatore di una delle case di produzione più innovative e creative del cinema contemporaneo, la DreamWorks Animation KSG, che nel 2016 è stata ceduta per 3,8 miliardi di dollari a Comcast. 

Adesso sta lavorando a un progetto ambizioso per il quale sta cercando dei capitali ingenti, piuttosto improbabili da reperire, come sottolinea Andrew Ross Sorkin sul New York Times, per un primo round di investimenti. Katzenberg ha bisogno di 2 miliardi di dollari per avviare la sua nuova start-up televisiva, chiamata New TV. Malgrado l’enormità dell’impegno finanziario si sono presentati in molti all’appello di Katzenberg: Apple, CBS, Disney, Google, Spotify e Verizon si sono dette interessate. 

Katzenberg intende produrre contenuti televisivi specifici per i dispositivi mobili. La sua idea è quella di creare una HBO per la nuova generazione di consumatori di contenuti sui piccoli schermi degli smartphone. Intende ideare, produrre e distribuire contenuti televisivi di breve durata e di altissima qualità. Una sorta di Trono di Spade con episodi che abbiano un arco narrativo di 10 minuti. Produrre un minuto di queste narrazioni costerà 100mila dollari e dovrà schierare dietro e davanti la macchina da presa i pesi massimi di Hollywood. 

Katzenberg parte dal riconoscere che l’attuale format dei contenuti televisivi non è adatto al consumo sui dispositivi mobili. Un contenuto di 60 minuti con 19 di pubblicità è totalmente inadatto a essere visto su uno smartphone o un tablet in una situazione di mobilità. L’unico format possibile è la narrazione breve che deve essere distribuita tramite una piattaforma di proprietà del produttore. Deve essere un servizio completo: contenuto+piattaforma, finanziato dalla pubblicità e soprattutto dagli abbonamenti. 

Il contenuto non è più il Santo Gral 

Nel presentare la sua iniziativa che Katzenberg ha detto: “Siamo tutti cresciuti con l’idea che il contenuto è il re e invece mi sono reso conto che non è così. Il contenuto è l’incoronatore, il re è la piattaforma. Netflix è il re. Spotify è il re”. 

Non saranno né Apple, né Facebook, né YouTube a cambiare l’industria televisiva. “L’idea che Apple, Facebook e YouTube stanno andando a Hollywood con i loro miliardi di dollari per cambiare l’impresa televisiva è sbagliata – dice Katzenberg –. Non stanno facendo niente di nuovo o di unico. Stanno semplicemente ampliando l’offerta esistente e allargando i destinatari, ma succederà che questa frammentazione imploderà”. 

Questa visione non è però univocamente condivisa. C’è chi pensa che il modo di consumare contenuti video sui dispositivi mobili non è ancora determinabile. I comportamenti dei consumatori non sono a senso unico. Molti utilizzano Netflix con soddisfazione. Guardano il loro show preferito, lo mettono in pausa quando necessario, per poi riprenderlo alla bisogna. Non è detto che una piattaforma, pensata per trasmettere contenuti da vedere in una unica sessione di visione di 10 minuti, li convinca a sottoscrivere un abbonamento supplementare o ad abbandonare uno di quelli in essere. Si tratta di una scommessa e di una scommessa costosa. 

Poi c’è un’altra questione ancora più esistenziale. Quanti abbonamenti, non interoperabili tra loro, può sottoscrivere e gestire un consumatore senza perdersi in un labirinto di password e account. Qualsiasi editore o produttore di contenuti media sa benissimo che la pubblicità non può sostenere,?a lungo andare, il business. Ormai è chiaro che la pubblicità tende ad essere intercettata da pochi operatori come Google e Facebook e quindi c’è la tendenza a creare una soluzione commerciale ibrida con uno strato gratuito e uno a pagamento tramite abbonamento. Il modello di riferimento è Spotify. Si lavora per spingere il consumatore verso una qualche forma abbonamento che è sempre a buon mercato (tra i 5 e i 10 dollari/euro), ma è pur sempre, per quest’ultimo, una contribuzione che va a sommarsi ad altre. Negli Stati Uniti 100 milioni di consumatori pagano 100 dollari al mese pe rla TV via cavo e anche se convertissero questo investimento in streaming, difficilmente potrebbero essere in grado di gestire più di cinque abbonamenti contemporaneamente.

La frammentazione dell’offerta non aiuta il consumatore che vorrebbe un unico hub a cui rivolgersi per tutti i servizi di cui ha bisogno. La proliferazione di un modello di business basato su abbonamenti non interoperabilità andrà a scontarsi con questo limite oggettivo di recettività. 

Poi c’è un altro interrogativo importante. Riuscirà l’industria media tradizionale a competere, in efficienza, affidabilità e capacità di innovazione con i servizi di streaming nati su Internet e sviluppatisi innovando furiosamente sul servizio e sul marketing? 

L’ossessione del controllo 

I grandi gruppi media nella loro quasi totalità sono ossessionati dal controllo dell’intero sistema di produzione e distribuzione di un contenuto come avviene, in effetti, nel mercato nel quale sono abituati a operare. Una condizione molto difficile da replicare nella nuova economia. 

Il controllo dell’intera filiera, come si stanno rendendo conto tutte le imprese media tradizionali, è pressoché impossibile nel nuovo scenario digitale. In questo ambiente si tende ad andare verso una segmentazione e una specializzazione dei ruoli proprio per la complessità dello scenario stesso. Anche le posizioni che sembrano dominanti in realtà tendono ad essere transienti e possono essere rimpiazzate rapidamente dalle conseguenze della successiva innovazione. È un ambiente ad altissima liquidità. 

Questa volontà di controllo dell’intero business, motorizzato dai contenuti, si traduce nell’idea dei grandi gruppi tradizionali di costruire una propria piattaforma digitale nella quale far funzionare questo concetto. Le piattaforme native digitali, specializzate in uno specifico servizio come lo streaming, alla fine sono viste come concorrenti. 

Sta di fatto, però, che tutti gli slot in grado di raccogliere un’utenza digitale significativa, che aderisca a certi schemi di consumo e di acquisto, sono già occupati e controllati dalle grandi organizzazioni di Internet e dagli hub mediatici come Apple, Amazon, Google, Netflix e via dicendo. Si tratta di organizzazioni nate, cresciute e sviluppatesi nel nuovo ambiente che costituisce il loro unico scenario di business. 

È possibile modificare questo stato di cose facendo in modo che l’utenza inizi anche a frequentare e a investire tempo e denaro sulle risorse online costruite dai gruppi media tradizionali? Ecco il grande punto interrogativo. Per quello che si è visto finora queste risorse sono poca cosa: sono costruite molto spesso con logiche lontane da quelle a cui gli utenti digitali sono abituati perché il loro punto focale non è il consumatore ma la preservazione della posizione dominante. come dice Katzenberg il design e l’architettura dei contenuti sono costruiti intorno al business, non in modo inverso. In generale sono difficili da navigare, inutilmente complesse e carenti d’innovazioni, ci sono molte barriere e anche il prezzo non è spesso quello corretto. 

Nonostante che questo stato di cose sia sotto gli occhi di tutti, i gruppi media non si rassegnano a rinunciare all’idea di controllare il business attraverso costose iper-strutture distributive digitali con le quali rendere accessibili i loro contenuti al pubblico. Beninteso, si tratta di contenuti di eccellenza, contenuti che nessun altro soggetto possiede in maniera massiccia o è in grado di costruire nottetempo, dal nulla. Guardando bene, è proprio nei contenuti la forza dei gruppi tradizionali, l’eredità maggiore che si trovano a gestire e a perpetuare. È proprio sui contenuti che dovrebbero investire ricercando le alleanze migliori per diffonderli suoi nuovi media. È l’idea di Marchionne per l’auto senza guidatore. Questa idea però sembra avere fatto il suo tempo. 

Ma c’è qualcosa di ancora più basilare da discutere: ha il gruppo media tradizionale la cultura tecnologica, la mentalità e la conoscenza dei nuovi media appropriata per costruire qualcosa che possa attrarre milioni di soggetti e convincerli ad operare sulla loro piattaforma abbandonando i tecnologici o riducendo il loro impegno nei loro confronti. Per ora la risposta è no; non succederà. Ci dispiace per la Disney.

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