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Confindustria: il bail-in rallenta la crescita

Il bail-in aumenta i costi potenziali per i contribuenti rispetto ai tradizionali salvataggi bancari. Il limite all’acquisto di titoli pubblici da parte delle banche farebbe salire il costo del credito e aumenterebbe i divari nella UE. La soluzione della questione delle sofferenze bancarie in Italia è ostacolata dalle norme comunitarie.

Alcune regole per le banche adottate di recente in Europa e altre che sono in discussione, tutte in teoria mirate a rafforzare il sistema bancario e ridurre i rischi per l’economia, sono in realtà controproducenti. Non solo per le economie dei paesi periferici, dove oggi si registrano le maggiori difficoltà, ma anche per quelle dei paesi core, che più hanno ispirato quelle regole. La proposta di porre un limite all’acquisto di titoli di Stato domestici da parte delle banche non spezza il legame tra debito bancario e debito sovrano. I sistemi bancari restano “nazionali” perché in ogni paese il rendimento dei titoli di stato guida i tassi di medio-lungo termine, in particolare il costo della raccolta bancaria. Inoltre, quel limite non farà fluire più credito all’economia, anzi lo ridurrà.

Le nuove regole per i salvataggi bancari (bail-in), che impongono perdite ad azionisti, obbligazionisti e correntisti sopra i 100mila euro degli istituti in crisi, sono volte a tutelare il contribuente; in realtà, a fronte di difficoltà sistemiche, quadruplicano i costi per i contribuenti. La grande mole di crediti deteriorati nei bilanci bancari è stata causata dalla lunga e profonda recessione, non da una erogazione di prestiti poco accorta. Un insieme di interventi per liberare subito i bilanci bancari, tra cui la creazione di più società veicolo in cui trasferire le sofferenze, la diluizione delle eventuali perdite in più esercizi e l’accelerazione dei tempi di escussione delle garanzie, è indispensabile per rilanciare il credito e l’economia, ma alcune misure sono ostacolate dalle nuove norme europee. Le garanzie statali a prezzi di mercato non risolvono il problema. 

Un pericoloso limite ai titoli di Stato domestici presenti nei bilanci bancari

La proposta di limitare gli acquisti di titoli di Stato domestici da parte delle banche dell’Eurozona ha gravi controindicazioni e, se accolta, avrebbe effetti dirompenti sulla tenuta dell’Unione europea. L’obiettivo dichiarato è di ridurre l’esposizione degli istituti al rischio sovrano del proprio paese, con l’intento di spezzare il circolo vizioso tra sistema bancario e debito pubblico. Inoltre, si vorrebbe indurre le banche a destinare più risorse all’erogazione di credito a famiglie e imprese.

Il risultato sarebbe diametralmente opposto: maggiori costi per i contribuenti e minor credito all’economia. La misura proposta, infatti, si rivelerebbe inutile e dannosa. Inutile perché, anche quando l’Unione Bancaria europea sarà completata, i sistemi bancari rimarranno nazionali dato che il costo della raccolta sarà ancora legato ai rendimenti dei titoli di Stato di ciascun paese. Sarebbe così anche se le banche detenessero un quantitativo inferiore di tali titoli. In Italia e in altri paesi europei, infatti, esiste una relazione molto stretta tra l’andamento dei rendimenti dei titoli sovrani e quello dei rendimenti delle obbligazioni bancarie. 

Per le banche italiane, il costo della raccolta tramite bond è salito ai massimi a inizio 2012, subito dopo che a fine 2011 il BTP a 10 anni, il titolo guida, aveva raggiunto il picco. In seguito, il tasso sui bond bancari si è gradualmente ridotto, sulla scia della flessione dei rendimenti sovrani partita dal 2012.

Prima della crisi lo stato di salute delle banche italiane era nettamente migliore di quello che si aveva in altri paesi dell’Eurozona. Ma poi, con la crisi dei debiti sovrani, le politiche adottate in Europa e la lunga recessione che ne è seguita, la situazione dei bilanci bancari in Italia è peggiorata. È cresciuto il costo della raccolta bancaria e sono aumentate le sofferenze. Nel momento peggiore della crisi, le banche italiane hanno realizzato acquisti massicci di titoli sovrani nazionali: il loro portafoglio di tali bond è salito da 205 miliardi a fine 2011 a 402 miliardi nel giugno 2013, mantenendosi poi su quei valori (390 miliardi a dicembre 2015). Ciò ha contenuto l’aumento dei rendimenti sovrani, che erano già più alti dei valori giustificati dal rischio paese.

Inoltre, ha consentito alle banche di migliorare il proprio bilancio, sostenendo la loro redditività. Se nel 2011-2012 gli istituti avessero dovuto limitare i loro acquisti, in Italia avremmo avuto un sistema bancario con bilanci peggiori e un credit crunch maggiore, e quindi minor credito all’economia. E avremmo avuto anche più elevati rendimenti sui titoli di Stato, con impatti negativi sui conti pubblici e sull’andamento del PIL. Se oggi venisse ridotto l’acquisto di titoli sovrani da parte delle banche, facendo venire meno una importante fonte di domanda per tali bond, nei paesi dell’Eurozona con debiti pubblici maggiori i rendimenti dei titoli di Stato risulterebbero strutturalmente più elevati che altrove.

Riflettendosi sul costo dei prestiti in tali paesi, ciò limiterebbe l’accesso al credito, comprimendo la crescita. In un circolo vizioso che minerebbe proprio la sostenibilità dei debiti pubblici. Esattamente l’opposto di quel che si vorrebbe ottenere con il limite ai titoli di Stato nei bilanci bancari, cioè di far fluire più fondi delle banche a imprese e famiglie, per sostenere la crescita. L’introduzione di un limite agli acquisti bancari di titoli di Stato, dunque, farebbe aumentare la divergenza tra le economie periferiche da un lato, che sarebbero ancor più penalizzate, e quelle core dall’altro. Con il risultato di ampliare le divergenze in Europa e quindi accrescere le forze centrifughe che stanno minacciando la tenuta dell’UE.

Solo quando ci sarà una Unione di bilancio (o Fiscal Union), con l’emissione di titoli federali che possano fungere da benchmark per tutti gli emittenti, allora i sistemi finanziari non saranno più nazionali e ciascun emittente, comprese le banche, sarà valutato per il proprio merito di credito, e non per l’appartenenza a uno Stato con un debito pubblico più o meno alto. Solo allora, dunque, si potrà imporre un vincolo alla detenzione di titoli pubblici nei bilanci bancari senza avere gli effetti negativi spiegati sopra. Per i proponenti, l’eliminazione della ponderazione nulla dei titoli pubblici e/o un tetto ai titoli sovrani nei bilanci bancari sono una tappa verso la Fiscal Union, ma questo traguardo rischia di non essere mai raggiunto se quell’eliminazione e quel tetto venissero attuati perché accentuerebbero la distanza tra i paesi che dovrebbero dar vita alla Fiscal Union stessa. Un fallimento dovuto all’incoerenza
temporale tra le varie fasi della costruzione.

Il bail-in pone nuovi rischi, non solo nel paese le cui banche sono in crisi

Con l’entrata in vigore del bail-in il primo gennaio 2016, in caso di crisi bancarie i detentori di tutte le obbligazioni (non solo quelle subordinate) emesse da tali istituti rischiano di essere chiamati a concorrere a eventuali salvataggi, insieme agli azionisti e ai detentori di depositi superiori a 100mila euro. Se la crisi riguardasse una sola banca, il bail-in potrebbe costituire un deterrente al moral hazard e quindi essere uno strumento di risoluzione accettabile (pur non dimenticando che la corsa agli sportelli bancari può partire dal fallimento anche di una sola banca, e nemmeno grande).

Il grave errore, però, è stato quello di concepire il bail-in come salvaguardia dei contribuenti contro il rischio di essere chiamati a salvare le banche, come è accaduto in molti paesi (Germania in testa) all’inizio della crisi. Ma se la crisi bancaria fosse sistemica, qual è stata quella del 2008-2009, allora con il bail-in i contribuenti sarebbero chiamati a pagare il conto non una, ma quattro volte. Primo, con la perdita di valore dei loro asset, a causa del crollo delle quotazioni di Borsa e dei prezzi delle case. Secondo, con la diminuzione del reddito.

Terzo, con la perdita di posti di lavoro. Quarto, con l’incremento della tassazione e/o con il taglio della spesa pubblica, necessari a coprire il deficit pubblico causato dal peggioramento dell’economia. Questo quadruplo conto verrebbe, infatti, presentato proprio dal mancato salvataggio delle banche per l’operare, in sua vece, del bail-in, che innescherebbe una violenta recessione. E in un sistema integrato come quello europeo il conto salato si estenderebbe (attraverso i canali della fiducia, dei legami commerciali e di quelli finanziari) anche ad altri paesi.

I nuovi rischi per i risparmiatori creati dal bail-in possono avere anche una conseguenza immediata: se la percezione di maggiore rischiosità delle obbligazioni bancarie porterà a un aumento dei rendimenti che le banche devono offrire per emetterle, ciò si rifletterà sul costo del credito offerto dagli istituti, determinando una nuova stretta. Lo stesso accadrà se tale percezione si traducesse in una riduzione dei depositi bancari detenuti dalle famiglie.

In Italia è elevata la quota di collocamento al dettaglio dei bond bancari, mentre in altri paesi dell’Eurozona è maggiore il ruolo
degli investitori istituzionali nella sottoscrizione di obbligazioni, investitori che sono professionalmente in grado di valutare le reali condizioni di bilancio di ciascuna banca. Lo stock di obbligazioni emesse dalle banche italiane è pari a 664 miliardi, di cui 187 miliardi sono stati acquistati dalle famiglie italiane (28,2%). La restante parte dei bond bancari è nel portafoglio di altri istituti creditizi, società di assicurazione, fondi pensione, investitori esteri. Inoltre, sulla raccolta delle banche italiane (pari a 4.074 miliardi) i bond lontano molto: 16,3% (di cui i 4,6% quelli venduti alle famiglie). Valori molto più alti rispetto a altri paesi dell’Eurozona. In Germania le banche hanno emesso obbligazioni per 1.250 miliardi, di cui solo 86 miliardi sono nel portafoglio delle famiglie tedesche (6,9%, quattro volte meno che in Italia).

In Spagna lo stock di bond emessi dalle banche è pari a 371 miliardi, di cui solo 1 miliardo acquistato da famiglie spagnole (0,2%). Sulla raccolta delle banche tedesche, i bond rappresentano il 15,0%, un punto e mezzo meno che in Italia, e in Spagna solo l’11,6%. Il bail-in va, comunque, sospeso non tanto per la situazione di un paese o di un altro, ma perché sono stati valutati male i suoi reali effetti economici, che sono del tutto controproducenti proprio rispetto alle pur comprensibili ragioni che hanno spinto verso la sua
introduzione.

Troppi crediti deteriorati nelle banche e interventi pubblici frenati dalle norme Ue

Il sistema bancario in Italia oggi ha una grande massa di prestiti deteriorati che si è accumulata a causa della lunga e profonda recessione. Le sofferenze sono salite a 143 miliardi a fine 2015 (18,3% dei prestiti alle imprese), da 25 miliardi a fine 2008 (2,9%). Ciò ha reso gli istituti particolarmente prudenti e sta frenando l’erogazione di nuovo credito. In Italia la massa di crediti deteriorati (sofferenze, incagli, scaduti, ristrutturati) è pari al 20,9% del totale dei prestiti per i primi 8 istituti italiani (pari a 250 miliardi di euro), contro il 6,0% per le maggiori 21 banche europee.

La maggior presenza di partite deteriorate nei bilanci bancari in Italia. però, non è dovuta a una peggiore gestione delle banche negli affidamenti, ma è spiegata dalla doppia e profonda recessione, che ha fatto cadere il PIL di oltre il 9%, la produzione industriale di più del 25%, l’attività nelle costruzioni di quasi il 50%. Queste terribili condizioni macroeconomiche hanno reso inevitabilmente fallaci molte valutazioni del merito di credito effettuate prima della crisi e soprattutto prima della recessione del 2011-2014. E va riconosciuto al sistema bancario italiano, nel suo insieme, di aver saputo reggere l’urto di condizioni macroeconomiche così difficili; non altrettanto, probabilmente, sarebbe accaduto in altri paesi. 

Le maggiori banche italiane hanno disposto, nel corso degli anni, accantonamenti ai fondi rischi per un totale di 115 miliardi. Tali fondi coprono il 46,0% dei crediti deteriorati presenti nei loro bilanci, più di quanto accada per le maggiori banche europee (44,8%). In rapporto allo stock di crediti, gli accantonamenti sono pari al 9,6% in Italia e al 2,7% in Europa. Va, inoltre, sottolineato che le banche italiane erogano credito tradizionalmente a fronte di elevate garanzie collaterali, tanto che per i primi 8 istituti italiani il tasso di copertura sale di 40 punti includendo tali garanzie, cioè all’87,6% dei crediti deteriorati. Non sono disponibili dati di confronto con le banche europee.

Le banche contano di recuperare una quota più o meno grande dei crediti deteriorati, anche attraverso l’escussione delle garanzie. Su questo incideranno fattori macro (andamento dell’economia) e micro (procedure concorsuali, efficienza nel recupero crediti). A giugno
2015 il Governo ha varato misure per la velocizzazione delle procedure fallimentari, oltre che la deducibilità fiscale in un anno delle perdite su crediti; a febbraio ha introdotto nuove misure fiscali per facilitare il recupero dei crediti.

Va anche ricordato che l’ammontare di capitale delle banche è in Italia in linea con i valori europei, in rapporto al totale dei prestiti: 10,6% per i maggiori istituti, 11,3% in Europa. Tuttavia, la mole dei prestiti deteriorati frena il credito e, quindi, la crescita economica del Paese. Questo rende essenziali interventi di sistema per alleggerire i bilanci degli istituti da tale fardello e, di conseguenza, favorire la ripartenza del credito e sostenere il recupero dell’economia italiana. Interventi su più livelli: creazione di più società veicolo in cui trasferire le sofferenze, diluizione delle eventuali perdite in più esercizi, accelerazione dei tempi di escussione delle garanzie. Le società veicolo consentirebbero di creare un ponte temporale tra il prezzo di mercato dei crediti deteriorati (che oggi è depresso a causa del loro elevato ammontare che ne aumenta l’offerta) e il loro fair value.

Le nuove regole europee (in particolare quelle sugli aiuti di Stato) ostacolano alcune di queste misure. Molti altri paesi europei, invece, hanno già sostenuto con risorse pubbliche le loro banche negli anni recenti, tra il 2008 e il 2013. L’Italia finora, tra i principali paesi della UE, è quello che ha destinato il minore ammontare di risorse al sostegno delle banche: 8 miliardi di immissione di capitale, contro 73 della Spagna, 56 della Germania, 49 dell’Irlanda e 28 della Francia. In rapporto al PIL, 0,5% in Italia, contro 1,4% in Francia, 2,2% in Germania e 6,6% in Spagna. Analoghe considerazioni valgono per gli interventi di garanzia: 119 miliardi in Italia (dati a fine 2013), a fronte dei 382 della Germania e 141 della Francia. Tra il 2011 e il 2012, nel pieno della crisi dei debiti sovrani, l’Italia affrontava notevoli difficoltà sui mercati internazionali, in particolare con un’impennata dei rendimenti dei titoli pubblici, che non hanno consentito in quel momento al Paese di intervenire sulle sofferenze con le stesse risorse messe in campo dagli altri paesi.

A inizio 2016, con le nuove regole europee in vigore che non consentono più quel tipo di interventi, il MEF ha varato un meccanismo per la concessione di garanzie dello Stato, a titolo oneroso, per favorire operazioni di cartolarizzazione di crediti bancari in sofferenza (GACS). Si tratta di un intervento nella giusta direzione, ma non risolutivo per la questione delle sofferenze. Lo Stato garantisce solo la tranche senior delle cartolarizzazioni, quella più sicura, che sopporta per ultima le eventuali perdite, non le tranche più rischiose (junior e mezzanine). 

Inoltre, lo Stato rilascerà la garanzia solo se i titoli avranno ottenuto, da un’agenzia riconosciuta dalla BCE, un rating almeno pari all’investment grade, cioè non inferiore a BBB, non distante da quello dello Stato italiano che oscilla tra BBB- e BBB+. Questi due paletti
limitano significativamente l’ammontare di sofferenze che può avvalersi delle garanzie. Le garanzie possono essere richieste dalle banche che cartolarizzano i crediti in sofferenza, a fronte del pagamento di una commissione allo Stato, espressa in percentuale dell’ammontare garantito. Il prezzo della garanzia era il punto critico, su cui il MEF ha dovuto raggiungere un accordo con la Commissione UE: sarà un prezzo di mercato, in modo che la garanzia non venga considerata un aiuto di Stato.

Il prezzo sarà calcolato prendendo come riferimento quelli dei Credit Default Swap degli emittenti italiani con un livello di rischio paragonabile a quello dei titoli garantiti. Il prezzo sarà crescente nel tempo, sia per tenere conto dei maggiori rischi connessi a una maggiore durata dei titoli, sia per introdurre un incentivo a recuperare velocemente i crediti. Questo meccanismo di mercato rappresenta un passo avanti, perché si mette a disposizione del sistema un nuovo strumento. Tuttavia, le garanzie non sembrano in grado di incidere rapidamente sullo smaltimento dei crediti deteriorati presenti nei bilanci delle banche. Il meccanismo, infatti, non migliora in modo decisivo le attuali condizioni di mercato per le banche e per i potenziali investitori. Potrà facilitare, gradualmente, lo smobilizzo di quelle sofferenze per le quali la distanza iniziale tra prezzo di domanda e di offerta sia inferiore.

Ma per ridurre a livelli fisiologici lo stock attuale di crediti deteriorati occorreranno diversi anni. La via maestra per abbassare la montagna delle sofferenze resta la crescita economica, che però viene frenata proprio dai nodi del credito.

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