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Bitcoin, non è tutto oro quello che luccica: ecco il lato debole

Sicurezza, trasparenza, anonimato ed economicità sono le principali caratteristiche del Bitcoin ma non sono così inattaccabili come molti credono e sul mercato cominciano ad imporsi alternative più efficienti come nel caso dello IOTA

Bitcoin, non è tutto oro quello che luccica: ecco il lato debole

Sicurezza, trasparenza, anonimato, economicità sono, oltre alla quantita fissa di moneta, le principali caratteristiche del bitcoin ma, a ben vedere, sono vantaggi più virtuali che reali. Cerchiamo di capire il perchè.

La sicurezza del bitcoin è molto sopravvalutata. Per entrare nel mondo del bitcoin, ci sono tre modi: mining, pagamenti in bitcoin, e conversione da monete tradizionali. Il mining è rischioso: se un competitor scopre il bitcoin, l’investimento in energia del minatore è perso. Per ridurre i rischi, gruppi di “minatori” condividono in rete la potenza di calcolo dei propri computer, scoprono il bitcoin più facilmente e si dividono i profitti. Ricevere pagamenti in bitcoin è possibile, ma non essendo un mezzo di pagamento universalmente, chi lo fa converte i bitcoin in moneta tradizionale ricadendo nella terza modalità. La conversione tra bitcoin e monete tradizionali è la principale porta al mondo bitcoin ed anche il punto debole di sicurezza e anonimato perché i bitcoin exchange offices non forniscono le stesse garanzie del sistema bancario.

Un ulteriore aspetto tecnico mina la sicurezza del bitcoin. Il blockchain risolve il problema dei generali bizantini perché i processi falsi sono meno di un terzo del totale. Secondo una ricerca di Chainalysis, un’azienda di indagini forensi digitali utilizzata dalle agenzie delle entrate statunitensi ed europee, tra i 2,78 e i 3,79 milioni di bitcoin sono fuori circolazione andati persi. L’ammontare è pari al 17%-23% dei bitcoin minati. Un milione di bitcoin pare che sia ancora controllato da Satoshi Nakamoto, ma c‘è chi sostiene che anche i bitcoin non in circolazione siano nelle sue mani. Bloomberg riporta infine che 1,000 persone, le “balene”, possiedono circa il 40% del mercato e probabilmente si conoscono tra loro. La loro esistenza è confermata dai grandi importi segnalati su alcuni conti. Tutto ciò fa sospettare che oltre il 33% dei bitcoin possa essere controllato da poche persone (se non addirittura dal suo fondatore). Queste potrebbero non solo colludere per alterare il valore del bitcoin ma anche (teoricamente) clonare i bitcoin aggirando il meccanismo di validazione a maggioranza.

Restano infine gli attacchi hacker ai portafogli individuali e soprattutto ai bitcoin exchange offices. Il più grande avviene nel febbraio 2014: 450 milioni di dollari in bitcoin spariscono da MtGox causando un crollo del 30% del valore del bitcoin. Un altro grande furto si verifica il 4 agosto 2016: 119,746 bitcoin equivalenti a 65 milioni di dollari vengono rubati a Bitfinex. Il prezzo del bitcoin segna -12%. La lista è molto lunga. Solo negli ultimi due mesi vengono messi a segno altri due furti eccellenti. Il primo, per quasi 31 milioni di  dollari, avviene il 21 novembre 2017 a spese della start-up Tether. Il secondo è del 7 dicembre 2017: 4700 bitcoin rubati alla società NiceHash pari a 70 milioni di dollari. È impossibile listare i molti furti ai portafogli individuali.

Trasparenza

Parlare di trasparenza per una valuta di cui non si conosce nemmeno l’inventore suona decisamente paradossale. Gli exchange rate office sono entità private, sconosciute, e non coperte da alcuna garanzia: promettono di convertire bitcoin in moneta tradizionale e viceversa ma hanno tempi lunghi (circa una settimana per la consegna) con alti rischi di cambio e di banca. Inoltre, al contrario delle banche, tendono ad avere un maggior rischio di default all’aumentare delle dimensioni per due ragioni: da un lato, un grande bitcoin exchange office attrae gli attacchi hacker e dall’altro, il crescente valore del bitcoin in un mercato completamente non regolamentato incentiva le frodi da parte dei gestori.

Due casi sono esemplari. Il primo è quello del già menzionato MtGox che arrivò a gestire il 70% delle transazioni in bitcoin nel 2013, ma fallì nel febbraio 2014. La causa sembra un attacco hacker, ma la giustizia giapponese ha anche accusato il suo amministratore, Mark Karpeles, di frode. Per via di un cavillo legale, l’exchange office di Tokyo è rimasto titolare di gran parte degli 850,000 bitcoins trafugati dai conti individuali, un ammontare enorme all’epoca ma stratosferico oggi. Questo crea un enorme incentivo a comportamenti opportunistici da parte dei gestori. Il secondo caso riguarda le Initial Coin Offering, ovvero l’offerta iniziale di nuove criptovalute. Questa procedura è ora vietata in Cina dove nei primi 6 mesi del 2017, 65 ICO hanno rastrellato 394,6 milioni di dollari da 105 mila investitori. Il motivo è che circa il 10% del totale raccolto è stato “rubato” facendo salire artificiosamente la quotazione iniziale per raccogliere soldi per poi lasciarla precipitare nei giorni successivi in una sorta di Ponzi scheme. Il bitcoin, nonostante non sia in fase di ICO, potrebbe essere soggetto a rischi simili.

Gli attacchi ai portafogli individuali quindi potrebbero essere la preoccupazione minore degli investitori in bitcoin. La blockchain rende sicure le transazioni, ma l’opacità degli exchange office promuove furti e frodi digitali che mettono in pericolo lo stoccaggio del bitcoin, un rischio che aumenta tanto maggiore è il valore del bitcoin stesso. L’infrastruttura bancaria, pur coi i suoi difetti, resta più trasparente e sicura di quella degli exchange office.

Anonimato

Il vero punto di forza del bitcoin, però, resta l’anonimato che consente di evitare i limiti ai movimenti di capitali (es. Cina), di aggirare gli embarghi internazionali (es. Corea del Nord) e, in generale, di eludere le autorità (es criminali ed evasori). Eppure il bitcoin è meno anonimo di quello che si crede per almeno due ragioni. La prima è che mentre le transazione sono anonime, le porte al mondo bitcoin sono completamente tracciate: basta monitorare i bitcoin exchange office. Se usato soltanto per i trasferimenti di denaro da A a B, il bitcoin è come un bonifico nominativo. La seconda è che il blockchain è più colpito da shock tecnologici di altre tecnologie. Computer quantistici dall’enorme potenza di calcolo potrebbe mettere a rischio la blockchain: facilitando il mining, creerebbe un’ondata inflazionistica e rendendo possibile il calcolo a ritroso delle  transazioni, eliminerebbe l’anonimato. Senza questo, il blockchain perde il suo principale vantaggio sul sistema tradizionali.

Economicità

Il vero valore aggiunto del bitcoin risiede nella possibilità di trsferimenti a basso costo offerta dal blockchain. Un minatore guadagna quando scopre un nuovo bitcoin e quando riceve la commissione per aver inglobato una nuova transazione nei blocchi da lui già minati. La commissione funziona da incentivo al minatore per convalidare le nuove transazioni e sostenere l’intero sistema. I minatori danno priorità alle transazioni in base alle commissioni e chi ha fretta di avere la transazione in 5-15 minuti, paga commissioni maggiori di chi è disponibile ad attendere 10-30 minuti. Le commissioni crescono con l’utilizzo del bitcoin perché la validazione a maggioranza rallenta il blockchain all’aumentare del numero di transazioni processate, lievitando quindi tempi e costi.

Le banche si stanno impadronendo del blockchain, ma esistono alternative più efficienti. Lo IOTA, settima criptovaluta per capitalizzazione di mercato fondata a Berlino nel 2015 da David Sønstebø (direttore del progetto), Sergey Ivancheglo (sviluppatore), Dominik Schiener (sviluppatore), e Dr. Serguei Popov (matematico), ha tre elementi che la contraddistinguono dalle criptovalute di prima generazione. La prima è che l’offerta di moneta è fissa, ma non minabile: tutti i 2.779.530.283.277.761 IOTA già distribuiti fin dall’inizio. La seconda è che lo IOTA utilizza il sistema tangle che è basato su grafi aciclici diretti, ovvero una rete in cui alcuni nodi sono solo ricettori e altri solo emittenti di segnali. Come il blockchain, questo sistema garantisce unicità e non invertibilità, ma lo fa tramite collegamenti a senso unico tra i nodi della rete: molti percorsi diversi possono condurre ad uno stesso nodo ricettore ma da questo è impossibile tornare indietro. La terza caratteristica è l’infinita scalabilità. Il blockchain diventa più inefficiente al crescere del numero di transazioni perché i nodi vengono sottoposti a stress crescente. Non avendo minatori, lo IOTA è completamente decentralizzato: per effettuare una transazione è necessario convalidarne altre due attraverso il software a cui si accede dal proprio portafoglio privato. Gli utenti diventano così minatori e azzerano i costi di transazione. Il tangle, quindi, è più efficiente e veloce all’aumentare del numero delle transazioni perché aumenta il numero di chi può convalidarle.

Lo IOTA è stato pensato per l’internet delle cose, ovvero una rete digitale applicata agli oggetti di uso quotidiano, le “cose”, che diventano “intelligenti” condividendo i propri dati e accedendo alle informazioni condivise da altri oggetti. Ad esempio, quando un anziano si dimentica di prendere un farmaco, il contenitore della medicina potrebbe mandare un avviso al figlio, oppure quando c’è traffico, la sveglia potrebbe suonare prima. Azzerando i costi di transazione è possibile effettuare micropagamenti tra le “cose”, un’operazione attualmente troppo costosa col bitcoin. Dal punto di vista economico, lo IOTA ha una utilità intrinseca perché consentendo transazioni prima impossibili, espande il mercato. Ciò lo rende superiore al bitcoin e potenzialmente anche alle monete tradizionali. Aziende come Ubuntu/Canonical, Innogy, Microsoft, Cisco, Foxconn, Bosch e altre stanno supportando il progetto IOTA.

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