Bisogna riconoscere che, di fronte a una debacle clamorosa come quella sui referendum e soprattutto su quello del Jobs Act, il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, è stato l’unico a intestarsi fino in fondo la sconfitta essendo stato il promotore della consultazione popolare che ha finito per trascinare nel disastro anche la sinistra d’opposizione, dal Pd di tendenza Schlein ai Cinque Stelle di Conte.
Landini ha evitato di arrampicarsi sugli specchi e di imbarcarsi in disquisizioni surreali come quella della soglia psicologica del 30% e ha apertamente sostenuto che l’obiettivo della Cgil era solo quello di abrogare norme ritenute ingiuste per i lavoratori ma che l’obiettivo è stato fallito. Il riconoscimento gli fa onore ma non basta di certo e il confronto con il passato segna l’enorme differenza di qualità tra la leadership della Cgil di oggi e quella ben altrimenti gloriosa di altri tempi.
Nel 1955 la Cgil subì una sonora sconfitta nelle elezioni sindacali nella Fiat ma il mitico segretario generale di allora, Giuseppe Di Vittorio, non si limitò a riconoscere di aver perso ma affidò al trentenne Bruno Trentin la redazione di un approfondito rapporto sulla sconfitta che diede poi vita a una serie autocritica e una diversa strategia del sindacato con il “ritorno in fabbrica” e la benedizione della contrattazione aziendale. Ma Landini sarà mai in grado di affrontare una reale autocritica che abbandoni le rive massimaliste e di avviare un nuovo corso? Difficile crederlo. Se però il segretario della Cgil non sarà in grado di trarre le conclusioni della sconfitta referendaria, la dignità vorrebbe che chi ne è stato il promotore trovi il coraggio delle dimissioni, che però Landini esclude tassativamente.