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Visco (Bankitalia) richiama il Governo: attenzione al deficit pubblico

Il Governatore della Banca d’Italia condivide l’opportunità di puntare sugli investimenti per lo sviluppo dell’economia ma mette in guardia il Governo su un ricorso eccessivo al deficit pubblico per finanziare le richieste dei Cinque Stelle e della Lega sulla manovra economica che il ministro Tria sta congegnando – VIDEO.

Visco (Bankitalia) richiama il Governo: attenzione al deficit pubblico

Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco è intervenuto al 64° Convegno di Studi Amministrativi “Sviluppo economico, vincoli finanziari e qualità dei servizi”, presso Villa Monastero di Varenna. Ecco il testo del suo intervento, dal titolo “Investimenti pubblici per lo sviluppo dell’economia”:

Nell’ultimo decennio l’economia italiana ha attraversato la peggiore crisi della sua storia. La doppia recessione, durante la quale il prodotto interno lordo è diminuito di circa nove punti percentuali, è stata seguita da una ripresa debole e stentata: dal 2013 a oggi abbiamo recuperato meno della metà del terreno perduto. In questo contesto è stata da più parti sostenuta l’opportunità di aumentare la spesa per investimenti pubblici, che può avere effetti positivi sul livello dell’attività economica nel breve periodo e incidere sul suo potenziale di crescita nel più lungo termine. L’impulso fornito dalla maggiore spesa è di norma più elevato se questa è finanziata in disavanzo. Può essere più forte se gli investimenti effettuati risultano complementari al capitale privato, incrementandone al margine la redditività: verrebbe per tale via incentivata la spesa in investimenti delle imprese. Nel medio-lungo periodo, l’aumento del potenziale di crescita deriva dall’apertura di nuove opportunità per l’attività economica e dallo stimolo all’innovazione; questi effetti possono essere conseguiti con la realizzazione di infrastrutture materiali, specie se ad alto contenuto tecnologico, e soprattutto attraverso investimenti in ricerca e in conoscenza.

Nel breve periodo l’aumento del livello del prodotto, misurato dal cosiddetto “moltiplicatore degli investimenti”, può essere tanto forte da superare la crescita del debito pubblico dovuta al disavanzo. Ma se su questo effetto non si innesta quello di più lungo termine sul potenziale di crescita, la riduzione del rapporto tra debito e prodotto è temporanea: mentre il disavanzo continua ad alimentare il debito, il prodotto torna a crescere a ritmi simili a quelli precedenti all’aumento di spesa. L’entità del moltiplicatore dipende da alcune variabili importanti: rapidità ed efficienza degli interventi e capacità di individuare quelli in grado di determinare un effettivo incremento qualitativo e quantitativo del capitale pubblico sono le qualità necessarie per massimizzare l’impatto diretto sul prodotto; il permanere di condizioni finanziarie ordinate è indispensabile per evitare fenomeni di “spiazzamento” degli investimenti privati, che possono essere scoraggiati da un aumento dei tassi di interesse. L’attenta selezione dei programmi da finanziare è cruciale anche per ottenere gli effetti di più lungo periodo sul potenziale di crescita; non deve penalizzare le risorse disponibili per le infrastrutture immateriali.

Vanno tenuti in considerazione i vincoli che derivano dall’elevato livello del debito. Un aumento improduttivo del disavanzo finirebbe col peggiorare le prospettive delle finanze pubbliche, alimentando i dubbi degli investitori e spingendo più in alto il premio per il rischio sui titoli di Stato. Il rapporto tra debito pubblico e prodotto potrebbe  rapidamente portarsi su una traiettoria insostenibile. Nelle attuali condizioni della finanza pubblica e con un basso grado di efficienza nell’amministrazione, il ricorso al disavanzo va utilizzato con cautela, assicurando un impiego delle risorse effettivamente rivolto al sostegno dell’attività economica, nel breve e nel più lungo termine. Anche se un’efficace politica di investimenti riuscisse a portare l’economia su un più elevato sentiero di crescita, resterebbe necessario definire una strategia credibile negli obiettivi di bilancio e nelle linee di riforma, tale da determinare una riduzione del premio per il rischio sui titoli di Stato italiani. In questo scenario il rapporto tra debito e prodotto si avvierebbe su una traiettoria di progressiva riduzione, tanto più rapida quanto più contenuta la differenza tra onere per interessi e crescita nominale dell’economia e più ampio l’avanzo di bilancio al netto della spesa per interessi.

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Investimenti pubblici e domanda aggregata

È noto che la spesa pubblica cosiddetta “diretta”, come quella per investimenti, può avere un impatto più forte sulla domanda aggregata rispetto a uscite con effetti “indiretti”, quali i trasferimenti pubblici, che possono essere parzialmente destinati al risparmio dai loro percettori, in misura più elevata al crescere dei redditi. La valutazione precisa degli effetti macroeconomici di breve periodo di un aumento degli investimenti pubblici è però circondata da elevata incertezza. La dimensione del moltiplicatore (ossia l’incremento del prodotto generato da un aumento della spesa finanziato in disavanzo) dipende da molti fattori: il grado di utilizzo delle risorse produttive, l’orientamento della politica monetaria e le condizioni finanziarie che ne derivano; la presenza di eventuali ritardi e inefficienze nella definizione e nell’attuazione dei programmi di investimento; la valutazione dei mercati sulle prospettive di sostenibilità del debito a seguito dell’aumento di spesa. Simulazioni effettuate su un orizzonte di breve-medio periodo con il modello econometrico trimestrale della Banca d’Italia indicano che nello scenario più favorevole il moltiplicatore è superiore all’unità e l’aumento del prodotto ottenuto con i maggiori investimenti determina una riduzione del rapporto tra debito pubblico e PIL nell’arco di un quinquennio. È ragionevole ipotizzare che se la selezione degli investimenti non fosse accurata, o la loro attuazione fosse caratterizzata da sprechi e inefficienze, il moltiplicatore risulterebbe significativamente inferiore, avvicinandosi a quello (più basso) della spesa per trasferimenti. In queste circostanze il rapporto tra debito pubblico e PIL aumenterebbe.

Analogo risultato si avrebbe se il piano di spesa suscitasse i timori degli investitori: l’aumento dei costi di finanziamento (per il settore pubblico e di conseguenza per quello privato) ridurrebbe lo stimolo all’attività economica fornito dai maggiori investimenti, mentre il disavanzo risulterebbe più elevato per via sia della minore crescita dell’economia sia del progressivo incremento nella spesa per interessi. La valutazione del potenziale impatto di un maggiore disavanzo sul premio per il rischio sovrano non è semplice: si tratta di una relazione non lineare e volatile, influenzata da molte variabili, alcune non immediatamente quantificabili. Se l’espansione di bilancio dovesse essere accompagnata da un deterioramento della fiducia degli investitori come quello che, per ragioni diverse, si è verificato tra il 2011 e il 2012, l’impatto sui tassi di interesse potrebbe essere, come allora, particolarmente elevato. Non si possono applicare a situazioni di questo genere le stime basate sui valori registrati nelle economie avanzate in condizioni finanziarie normali. Bisogna comunque ricordare che ogni anno lo Stato deve collocare sul mercato circa 400 miliardi di debito pubblico. Il modello econometrico non tiene esplicitamente conto della complementarità tra capitale pubblico e privato nella funzione di produzione delle imprese. Investimenti che siano in grado di accrescere la redditività del capitale privato, incentivandone l’accumulazione, si possono tradurre in valori più elevati del moltiplicatore.

La letteratura empirica su questo nesso è ampia ma – anche a causa di non banali difficoltà metodologiche – non giunge a risultati univoci. Gli effetti stimati ne confermano comunque la rilevanza. Anche gli esercizi econometrici condotti da altre istituzioni, pur nella non piena comparabilità delle diverse simulazioni, sottolineano il ruolo determinante dei fattori di contesto che ho menzionato precedentemente: la reazione della politica monetaria, la capacità di ben selezionare e di mettere in atto senza ritardi né sprechi gli investimenti, le aspettative sull’evoluzione della finanza pubblica.

Investimenti pubblici e potenziale di crescita

L’analisi economica ha da tempo riconosciuto che il progresso tecnico e la dinamica della produttività totale dei fattori costituiscono l’effettivo motore della crescita economica per i paesi avanzati, nei quali l’iniziale rapida accumulazione di capitale fisico e la crescita della forza lavoro hanno esaurito la loro spinta. Un’adeguata dotazione di capitale pubblico può agevolare l’adozione di nuove tecnologie e la riorganizzazione dei processi produttivi, anche facilitando la nascita di nuove imprese. Può rivelarsi essenziale nel sostenere le fasi iniziali di sviluppo di tecnologie particolarmente innovative. Va riconosciuto però che il nesso tra accumulazione di capitale pubblico e sviluppo economico, per quanto cruciale, risulta sostanzialmente elusivo. È evidente che il capitale pubblico non comprende solo le infrastrutture materiali – come le reti di trasporto e quelle per le telecomunicazioni e l’energia – ma anche l’insieme delle conoscenze e competenze di cui un’economia può disporre. Queste due tipologie di capitale, materiale e immateriale, condividono alcune caratteristiche dei beni pubblici e senza l’intervento dello Stato sarebbero disponibili in quantità insufficiente. Lo Stato sostiene l’accumulazione immateriale sia direttamente, con la ricerca scientifica nelle università e nei centri di ricerca pubblici e con la prestazione di servizi di istruzione, sia indirettamente, attraverso sussidi e incentivi fiscali all’attività privata. Vi è evidenza che entrambe queste forme di intervento, se ben congegnate, incidono positivamente sulla crescita economica. In un contesto di rapido cambiamento tecnologico, promuovere l’accumulazione di capitale umano e il suo miglioramento qualitativo, appare altrettanto se non più importante dell’investimento in infrastrutture materiali, soprattutto nel nostro paese. La spesa pubblica per istruzione è intorno al 4 per cento del PIL, molto più bassa che nella media dell’area dell’euro. L’Italia risulta agli ultimi posti tra i paesi sviluppati per le competenze della sua forza lavoro. Il divario rispetto agli altri paesi è pronunciato anche con riferimento all’attività di ricerca e sviluppo, sebbene in questo caso sia pressoché interamente dovuto alla componente privata della spesa.

La spesa pubblica per investimenti e la dotazione di infrastrutture in Italia

La spesa per investimenti fissi lordi delle Amministrazioni pubbliche si è ridotta in Italia negli ultimi anni ed è inferiore a quella registrata in altri paesi europei. In termini nominali è diminuita del 4 per cento all’anno in media dal 2008; una tendenza alla riduzione della spesa si osserva anche nel resto dell’area dell’euro, pur se meno pronunciata. In percentuale del PIL, la spesa è calata in Italia dal 3 per cento nel 2008 al 2 per cento nel 2017; la riduzione si è concentrata nelle Amministrazioni locali. Recentemente la Commissione europea ha stimato che nel nostro paese si registra un “deficit” di investimenti pubblici. Va tenuto presente che il significato economico delle voci di spesa non sempre coincide con la classificazione contabile. Le uscite registrate nel conto delle Amministrazioni pubbliche alla voce “investimenti fissi lordi” non sono destinate interamente alla formazione delle infrastrutture materiali, né rappresentano la totalità delle risorse finanziarie destinate a tale scopo. Circa la metà riguarda altre tipologie di spesa, quali ad esempio quelle per impianti, macchinari e brevetti. Investimenti in infrastrutture materiali sono effettuati anche da soggetti esterni al settore pubblico che realizzano comunque opere di pubblica utilità (tra questi i concessionari delle reti ferroviarie, stradali, dell’energia e delle telecomunicazioni).

Solo parte di queste spese passano dal bilancio pubblico e sono contabilizzate nella voce “contributi agli investimenti”, una voce molto eterogenea la cui composizione risente delle peculiarità nazionali nella classificazione settoriale degli enti coinvolti (all’interno o all’esterno delle Amministrazioni pubbliche) e nelle modalità di regolamentazione delle public utilities. Misurare la dotazione di infrastrutture di un paese è un esercizio complesso. Si possono utilizzare indicatori di tipo finanziario basati sulle risorse impiegate o si può far
ricorso a indici di dotazione fisica (lunghezza e densità delle reti di trasporto, fornitura di energia e acqua, telecomunicazioni, etc.) che possono anche riflettere differenze nella morfologia dei territori e nel grado di efficienza con cui le risorse sono impiegate. Vi sono infine indici che si propongono di cogliere l’adeguatezza complessiva delle reti infrastrutturali, tenendo conto per quanto possibile della domanda potenziale, delle
connessioni tra le diverse reti, dei fenomeni di congestione. Se si fa riferimento a indicatori basati sul cosiddetto metodo dell’inventario permanente, che cumula i dati storici sulla spesa annua per investimenti al netto del
deprezzamento stimato, la situazione dell’Italia appare sostanzialmente in linea con quella delle maggiori economie dell’area dell’euro. Rispetto ai primi anni 2000, si è ampliato il divario rispetto alla Francia, ma c’è stato un miglioramento rispetto alla Germania e alla Spagna.

Nel 2017 le Ferrovie dello Stato hanno effettuato investimenti per circa 4,5 miliardi (4,3 del 2016), quasi interamente effettuati dalla controllata RFI Spa, che si occupa della rete. Gli investimenti di Autostrade per
l’Italia sono ammontati a circa 600 milioni; altri 200 sono stati investiti dal secondo concessionario in ordine di importanza, il gruppo Gavio. Per la rete di telecomunicazioni, TIM ha investito circa 3,5 miliardi. Per quanto riguarda le infrastrutture elettriche, nel biennio 2016-17 Enel ha investito oltre 2,5 miliardi, Terna oltre 1,9 miliardi. Per la rete del gas naturale, Snam ha effettuato investimenti per circa 2,7 miliardi nell’ultimo triennio. Utilizzando indicatori fisici di dotazione infrastrutturale e rapportandoli a opportune variabili di scala, si ottengono risultati diversi. Ad esempio, in rapporto alla popolazione (una misura, per quanto molto rozza, della domanda potenziale di trasporto), la rete stradale e ferroviaria italiana risulta meno estesa di quella di Francia, Germania e Spagna. Analogamente, se si confronta il tempo di percorrenza minimo tra due territori, ponderato per la popolazione, si conferma una posizione di svantaggio dell’Italia nei confronti della media europea, suggerendo possibili effetti di congestione.

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Per misurare l’adeguatezza delle infrastrutture di un paese nel loro complesso – non solo quindi quelle di trasporto – sono infine disponibili valutazioni di natura soggettiva, la cui interpretazione richiede particolare cautela. Ad esempio, il World Economic Forum produce un indice sintetico per 137 paesi nel mondo; l’Italia risulta al 58° posto, distanziata da tutti i maggiori paesi europei. Secondo un’indagine simile (sebbene ristretta ai paesi europei e alle infrastrutture comunali) condotta dalla Banca europea degli investimenti nel 2017 l’Italia avrebbe un livello qualitativo analogo a quello spagnolo ma inferiore a quello francese, tedesco e a quello medio dell’Unione europea. Nel complesso si può notare una divergenza tra quanto suggerito dagli indicatori costruiti a partire dalla spesa storica e quanto desumibile da indicatori più analitici di adeguatezza delle reti (un ritardo dell’Italia rispetto agli altri paesi europei emerge solo dal secondo gruppo di indicatori). Si potrebbe presumere che tale divergenza sia dovuta anche a una minore “efficienza” nella realizzazione delle opere. Come ho notato in precedenza, l’efficienza è una variabile chiave nel determinare l’impatto macroeconomico della spesa per investimenti, sia nel breve sia nel lungo periodo.

Il testo integrale sul sito di Banca d’Italia.

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