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Vaccinazioni di massa, ai tempi del colera Napoli fu un modello

Ai tempi del colera, nel 1973, Napoli diede una prova di grande efficienza e nel giro di sette giorni furono vaccinati un milione di napoletani: fu la più grande operazione di profilassi condotta dalla fine della guerra

Vaccinazioni di massa, ai tempi del colera Napoli fu un modello

Fra un mese o poco più in Italia arriveranno i primi vaccini anti Covid, quelli dell’azienda americana Pfizer. Non sappiamo quali saranno i dettagli della somministrazione, sappiamo solo che essi saranno gratuiti e non obbligatori, secondo quanto ha detto il ministro Speranza. E abbiamo un solo esempio di vaccinazione di massa, quella del 1973 contro il colera a Napoli. Vale la pena di ricordarla.

Fu la più grande operazione di profilassi condotta dopo la fine della guerra: un milione di napoletani furono vaccinati nel giro di sette giorni. In quell’anno a Palazzo Chigi c’era il primo ministro Mariano Rumor, Dc, a capo di una coalizione di governo composta da Dc, Psi, Psdi e Pri; mentre sindaco di Napoli era un medico di grande esperienza, Gerardo De Michele, democristiano. Con il senno di poi una bella fortuna, sebbene i napoletani non lo abbiano mai riconosciuto.

L’improvvisa epidemia colpì la città in pieno agosto. Era stata provocata da un carico di cozze infette provenienti dalla Tunisia, ma questa verità si conobbe solo molto più tardi, quando ormai tutta l’economia dei miticoltori e pescatori partenopei era stata spazzata via. Sotto accusa finirono invece le cozze del golfo e da allora sparirono per sempre dalle tavole dei napoletani. Almeno nella versione “crudo”, cosa non accaduta invece a Bari, pure colpita dall’epidemia.

Chi scrive fu testimone e protagonista.

Ricevemmo la convocazione per la vaccinazione dal Comune agli inizi di settembre e ci mettemmo in fila davanti al Maschio Angioino con mia madre, la mia sorellina di 9 anni e un cuginetto di 14 rimasto prigioniero della zona rossa che impediva di entrare e uscire da Napoli. Dentro il castello simbolo della città era stato allestito uno dei punti di vaccinazione per gli abitanti del centro storico. Fu rapido e indolore. I medici usavano le grosse siringhe a pistola messe a disposizione per l’operazione dai soldati nella Sesta flotta degli Usa di stanza nel golfo. Le usavano in Vietnam e con esse si sparava il siero anti colera nella parte alta del braccio. Gli americani in verità stavano dando una mano anche rifornendo la città di parte delle scorte alimentari anche esse dirette in Vietnam.

Perché improvvisamente i napoletani si trovarono a non potere mangiare più niente: prima fu proibita l’acqua del rubinetto, l’unica che si usava all’epoca; poi tutto quello che si produceva a km zero, come diremmo oggi. Niente verdure, né frutta, e persino la pasta di Gragnano fu messa all’indice facendo la fortuna dei marchi del Nord. Cambiammo in quell’anno la nostra alimentazione dovendo eliminare il pesce e i prodotti del mare, introducemmo più carne, burro al posto dell’olio, più formaggi stagionati al posto delle mozzarelle. E cominciammo a usare l’acqua minerale. Di casa nostra oramai rimanevano le conserve di pomodoro, quelle di melanzane, quelle di peperoni, ovviamente messe in barattolo nella stagione precedente.

Alla fine dell’epidemia su 277 casi accertati, si contarono 24 morti a Napoli e 9 in Puglia, di cui 3 nella sola Bari. Numeri ridicoli se confrontati con le migliaia provocate dall’inizio della pandemia del Covid nelle due regioni. Eppure all’epoca il colera fece molta più paura di quanto ne faccia oggi il Coronavirus.

Il motivo si può forse solo intuire: perché mentre il Covid resta ancora oggi abbastanza misterioso, i napoletani conoscevano invece bene la forza distruttrice del vibrione, il batterio che provoca il colera. Solo nel secolo precedente nel Regno dei Borbone, ma anche negli altri Stati nel resto della penisola, si era manifestata una epidemia all’incirca ogni dieci anni: nel 1835, nel 1849, nel 1854, nel 1865, nel 1884, nel 1893. E i morti si erano contati a migliaia. La penultima epidemia, quella del 1884, aveva fatto 16 mila vittime e aveva spinto il governo di Agostino Depretis a “sventrare” (come aveva detto lui) l’antica capitale per realizzare la più grande opera urbanistica mai praticata nella città, quella definita del “Risanamento” e che avrebbe cambiato definitivamente il volto dei quartieri storici.

Ma tornando al 1973, la prima vittima, il 20 agosto, fu una ballerina inglese, Linda Heyckeey, L’ultimo caso si ebbe invece il 19 settembre, giorno di San Gennaro, il quale però non dovette credere che fosse finita perché il miracolo della liquefazione nell’ampolla non avvenne. In quell’unico mese si seminarono i cambiamenti che la città avrebbe poi vissuto negli anni successivi, non ultimo la disaffezione verso le amministrazioni democristiane che portò due anni dopo alla stagione di quelle comuniste, prima con il sindaco Maurizio Valenzi e poi, dopo una breve parentesi laica, quella molto più lunga di Antonio Bassolino.

E’ stato stimato che l’epidemia di colera produsse a Napoli danni economici per 30 miliardi di lire. Ma come sempre accade durante le crisi gravi, il risanamento della città e la distruzione degli allevamenti di mitili portò anche alla drastica diminuzione delle malattie a trasmissione fecale, come il tifo e l’epatite. Il male non porta sempre solo il male, siamo sicuri che andrà così anche per il Coronavirus.

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