Da tempo una parte consistente degli statunitensi di ascendenza europea manifesta un atteggiamento di superiorità, se non addirittura di disprezzo, nei confronti dell’America Latina e dei suoi abitanti. Questo giudizio ha alimentato la famigerata definizione dei messicani come un popolo di narcotrafficanti, stupratori e criminali in genere, formulata da Donald Trump in occasione del discorso con cui annunciò la propria candidatura alla Casa Bianca il 16 giugno 2015.
La visione del Messico come Stato fallito, prostrato dal dilagare dell’indigenza e dominato dai cartelli della droga, si è materializzata con l’erezione delle barriere divisorie lungo il confine meridionale statunitense, cioè con la costruzione del cosiddetto “muro”, già iniziata nel 2006 sotto l’amministrazione del repubblicano George W. Bush e proseguita sotto la presidenza del democratico Barack Obama, prima di essere rilanciata da Trump.
Il tentativo di sigillare la frontiera tra i due Paesi, infatti, scaturisce dal senso di estraneità degli Stati Uniti rispetto al Messico in particolare e all’America centromeridionale nel suo insieme.
Un lungo pregresso
La riprovazione statunitense dei confronti dei latinoamericani ha origini remote e risale quasi alla nascita del loro Paese come nazione sovrana alla fine del Settecento. A tale valutazione concorsero inizialmente i pregiudizi di una società composta in larghissima misura da persone di ascendenza anglosassone, che non si erano mescolate con i nativi americani, e di confessione protestante verso individui che praticavano il cattolicesimo ed erano spesso meticci, nati soprattutto dall’incontro dei conquistatori spagnoli di origine mediterranea con gli indios.
Per esempio, Thomas Jefferson, che fu il presidente degli Stati Uniti tra il 1801 e il 1809 oltre che il principale estensore della Dichiarazione d’indipendenza del 1776, contrappose le libere istituzioni repubblicane statunitensi alla presenza di amministrazioni coloniali dispotiche nella sezione meridionale del continente e stigmatizzò l’influenza del cattolicesimo in America Latina, fino al punto da affermare che “la storia non fornisce alcun esempio di un popolo dominato dai preti che sia stato capace di mantenere un governo civile libero”.
Di là a pochi anni, ad alimentare la sfiducia degli statunitensi verso i messicani e a sollevare dubbi sul loro effettivo anelito alla libertà giunse la constatazione che, dopo il conseguimento dell’indipendenza dalla Spagna nel 1821, il Messico non aveva creato una repubblica. I messicani avevano, invece, consentito a un ex ufficiale spagnolo, Agustín de Iturbide y Arámburo, di proclamarsi imperatore, col nome di Agustín I, il 19 maggio 1822.
Nel giro di pochi mesi, il 19 marzo 1823, Agustín I fu costretto ad abdicare e in seguito venne condannato a morte in contumacia e giustiziato il 19 luglio 1824 in modo da permettere la transizione del Messico alla Repubblica. Tuttavia, il precedente dell’iniziale scelta dell’Impero continuò a influenzare la percezione negativa dei messicani da parte degli statunitensi.
Per esempio, nel 1845, John O’Sullivan, direttore dell’autorevole rivista “U.S. Magazine and Democratic Review”, formulò la tesi del “destino manifesto” per giustificare l’espansionismo di Washington, cioè teorizzò che la Provvidenza divina aveva assegnato agli Stati Uniti il controllo dell’America settentrionale affinché vi potessero diffondere gli ideali di libertà, repubblica e democrazia allargando i loro confini nazionali.
Tuttavia, al termine della vittoriosa guerra combattuta dagli Stati Uniti contro il Messico tra il 1846 e il 1848, quando sorse la questione se annettere tutto il territorio del Paese sconfitto sui campi di battaglia, il Congresso decise di limitarsi a incorporare unicamente le regioni settentrionali (corrispondenti grosso modo agli attuali Stati di Arizona, California, Nevada e Utah nonché a una parte di Colorado e New Mexico).
Si trattava di un’area scarsamente abitata che presentava il vantaggio per cui all’estensione territoriale maggiore corrispondeva la densità demografica più bassa. In questo modo, gli Stati Uniti avrebbero potuto ingrandire in misura considerevole la propria superfice verso Sud, contenendo al massimo il numero di ispanici che sarebbero passati sotto la sovranità di Washington.
Proprio O’Sullivan era stato il primo a dubitare che i messicani fossero in grado di saper apprezzare le istituzioni statunitensi, in quanto li riteneva un popolo “debole e sciocco, sostanzialmente al di sotto della nostra media nazionale, sia per purezza sia per intelligenza”.
L’eco novecentesca dell’estraneità statunitense dall’America centromeridionale
La pregiudiziale del deficit di democrazia nell’America Latina per avvalorare la superiorità degli Stati Uniti sui loro vicini meridionali era ancora diffusa alla vigilia della prima guerra mondiale. Nel 1914, scandalizzato dal fatto che il generale Victoriano Huerta si fosse insediato alla presidenza del Messico in seguito a un colpo di Stato nel corso del quale era stato trucidato il suo predecessore, Francisco Madero, il presidente statunitense Woodrow Wilson minacciò di far occupare il Paese come monito per “insegnare alle repubbliche latinoamericane a eleggere buoni statisti”.
L’ambasciatore di Wilson nel Regno Unito, Walter Hines Page, arrivò al punto di dichiarare che Washington non avrebbe esitato a usare la forza fino a quando i messicani non avessero “imparato a votare e a governarsi da soli”. Ancora nel 1941, in un articolo pubblicato sull’influente rivista di politica estera “Foreign Affairs” e significativamente intitolato The Myth of the Continent (il mito del continente), l’economista Eugene Staley sostenne che gli Stati Uniti rientravano non in una “comunità americana” bensì in una “transatlantica” che si estendeva lungo l’asse tra l’America settentrionale e l’Europa.
Se proprio di appartenenza emisferica si voleva parlare, secondo Staley, gli Stati Uniti facevano parte dell’emisfero boreale, non certo di quello occidentale che comprendeva l’America Latina. Per dimostrare la fondatezza della sua tesi Staley fece affidamento sulle distanze geografiche e notò che “Madison, nel Wisconsin, è più lontana da Buenos Aires di Bengasi in India. Nessuna capitale europea, inclusa Mosca, è più lontana da Madison di Buenos Aires”.
La visione emisferica
I preconcetti contro gli ispanici hanno storicamente ostacolato lo sviluppo della nozione di una realtà emisferica tale da rendere gli Stati Uniti e i le nazioni dell’America Latina componenti di una medesima realtà geo-politica e hanno reso questo concetto una visione di gran lunga minoritaria nella riflessione statunitense sui rapporti all’interno del continente.
Quella del senatore Henry Clay del Kentucky – che già nel 1818 auspicò l’instaurazione di quello che definiva un “sistema americano”, cioè il sorgere di un qualche tipo di confederazione tra gli Stati Uniti e l’America Latina – rimase una voce inascoltata. Non a caso, pochi anni dopo, nel 1826, Washington boicottò il Congresso Anfictiónico, convocato a Panama da Simon Bolívar nel tentativo di far nascere proprio una confederazione tra le repubbliche americane che si sarebbe dovuta dotare di un esercito comune e di un parlamento sovranazionale.
Sebbene il vicepresidente della Gran Colombia (lo Stato corrispondente agli odierni Ecuador, Colombia, Venezuela e Panama), Francisco de Paula Santander, avesse formalmente invitato gli Stati Uniti a partecipare all’assise, il Senato si rifiutò di nominare una delegazione che li rappresentasse.
Invece, i successivi progetti panamericanisti, cioè i piani per intensificare la cooperazione e l’integrazione tra gli Stati delle Americhe, quando vennero avanzati da Washington, furono contrassegnati dal tentativo di affermare l’egemonia statunitense in ragione della presunta superiorità dei nordamericani, anziché essere l’espressione di una collaborazione su base paritaria tra i Paesi dell’emisfero occidentale.
Per esempio, la formazione dell’Unione Internazionale delle Repubbliche Americane, patrocinata nel 1890 dal segretario di Stato statunitense James Blaine, era prodromica a un’unione doganale volta all’elevazione di barriere tariffarie contro le importazioni dall’Europa per trasformare le Americhe in un mercato protetto a vantaggio dell’economia degli Stati Uniti.
Inoltre, negli anni seguenti, il panamericanismo sostenuto da Washington andò ad affiancarsi all’instaurazione di protettorati statunitensi, ancora una volta in base al presupposto che i popoli latinoamericani non fossero adatti, o per lo meno, non fossero ancora pronti per la democrazia, a causa soprattutto delle loro caratteristiche etnoculturali. Il caso paradigmatico di un panamericanismo dominato dagli Stati Uniti fu la nascita dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), promossa da Washington nel 1948, all’alba della guerra fredda, allo scopo di attuare anche nelle Americhe la politica di contenimento del comunismo intrapresa dall’amministrazione del presidente Harry S. Truman su scala globale. La creazione dell’OSA fece seguito agli sforzi compiuti da Franklin D. Roosevelt per coordinare la strategia di contrasto al nazismo nell’emisfero occidentale durante la seconda guerra mondiale.
Una storia interamericana
Un’interpretazione della storia delle Americhe in una prospettiva emisferica è stata proposta in un volume di Greg Grandin appena uscito, America, América. A New History of the New World (New York, Penguin Press, 2025).
Lo studio ricostruisce oltre cinque secoli di interazioni tra gli Stati Uniti e l’America Latina, riscattano quest’ultima da quella condizione di inferiorità in cui vorrebbero relegarla i luoghi comuni diffusi nella società statunitense, a partire da una previsione formulata all’inizio dell’Ottocento dalla bostoniana “North American Review”, secondo cui il Sudamerica sarebbe stato per l’America settentrionale “quello che l’Asia e l’Africa sono per l’Europa”.
Il senso della ipotetica inadeguatezza dell’America Latina nei confronti del suo vicino settentrionale a livello di percezione pubblica fu denunciato dal giornalista e scrittore uruguagio Eduardo Galleano nel 1971, nel suo libro più celebre, Le vene aperte dell’America Latina, in cui sostenne che “oggi, per il resto del mondo, l’America è costituita dagli Stati Uniti e basta: noi, al massimo, abitiamo in una sub-America, in un’America di seconda classe”.
Grandin cerca di rovesciare questa prospettiva. In particolare, mette in rilievo come l’America Latina abbia fornito apporti positivi agli Stati Uniti, non solo in termini materiali, ma anche nella veste di elaborazioni teoriche. Da un lato, per esempio, secondo Grandin, la riduzione delle tariffe doganali dei Paesi latinoamericani nel 1933, favorendo le importazioni dagli Stati Uniti, avrebbe “salvato il New Deal” di Franklin D. Roosevelt, mentre i buoni rapporti con le nazioni dell’America centromeridionale avrebbero aiutato Washington a ottimizzare lo sforzo bellico che condusse alla vittoria contro l’Asse nella seconda guerra mondiale.
Dall’altro lato, alcune dottrine formulate in America Latina avrebbero ispirato gli statisti nordamericani. Ad esempio, il sistema della sicurezza collettiva in sostituzione dell’equilibrio tra le potenze, su cui il presidente Woodrow Wilson modellò la Società delle Nazioni al termine della prima guerra mondiale, sarebbe stato uno sviluppo del panamericanismo che aveva permesso la convivenza relativamente pacifica degli Stati formatisi nell’America Latina dopo che le colonie spagnole e portoghesi ebbero conseguito l’indipendenza.
Le riflessioni dei giuristi venezuelano Andrés Bello e cileno Alejandro Álvarez nonché dei diplomatici argentini Carlos Calvo e Juan Bautista Abelardi sull’eguaglianza tra gli Stati a prescindere dalla loro potenza, sul rispetto della sovranità delle singole nazioni, sulla non ingerenza, sull’arbitrato per dirimere le controversie e sulla messa al bando delle guerre di aggressione avrebbero concorso alla maturazione dell’internazionalismo non solo di Wilson ma anche di Franklin Delano Roosevelt, trovando espressione nel secondo dopoguerra nella statuto delle Nazioni Uniti.
In maniera analoga, il rappresentante del Cile all’ONU, Hernán Santa Cruz, avrebbe validamente collaborato con Eleanor Roosevelt – l’ex first lady, al tempo alla guida della Commissione sui Diritti Umani delle Nazioni Unite –nella stesura della Dichiarazione universale dei diritti umani. Perfino l’abolizionismo statunitense, di cui è stata a lungo enfatizzata la matrice inglese, avrebbe ricevuto stimoli dalla polemica del rivoluzionario venezuelano Simón Bolívar contro la schiavitù.
Lo sforzo di confutare l’arretratezza latinoamericana nei confronti del vicino nordamericano induce Grandin addirittura a collocare le norme giuridiche messicane all’avanguardia, grazie al riconoscimento dei diritti sociali ed economici nonché alla subordinazione della tutela della proprietà privata alla difesa del bene della collettività, come sancito dalla carta costituzionale del 1917.
Inoltre, a fronte del trionfo del conservatorismo più reazionario con l’amministrazione Trump, Grandin vede un motivo di speranza e di conforto nella constatazione che più di 480 milioni di sudamericani vivono oggi sotto una qualche forma di governo socialdemocratico perché, a suo avviso, i programmi per migliorare le condizioni materiali di vita delle persone rappresentano il miglior antidoto contro le derive autoritarie.
Il suo auspicio, reiterato in un articolo su “The Guardian” dello scorso 25 aprile, è quello che l’America Latina possa ispirare anche in questo campo gli Stati Uniti.
L’attualità del panamericanismo
L’interpretazione di Grandin non è priva di forzature, non ultimo il sostanziale velo di silenzio sui conflitti militari interamericani, di cui la guerra che contrappose il Paraguay ad Argentina, Brasile e Uruguay tra il 1864 e il 1870 e causò il dimezzamento della popolazione paraguayana fu solo un esempio.
Lo stesso Bolívar, celebrato quale uno dei più autorevoli panamericanisti, era un personaggio non immune da tentazioni autoritarie e dittatoriali, come manifestò con la richiesta della presidenza a vita della Gran Colombia e della prerogativa di designare il proprio successore.
Nondimeno, il volume di Grandin esce in un momento quanto mai opportuno, ancorché in circostanze del tutto fortuite, per stimolare una riflessione su una possibile lettura emisferica delle vicende delle Americhe.
Il nuovo pontefice della Chiesa cattolica, Leone XIV, nato a Chicago e con doppia cittadinanza statunitense e peruviana, oltre che vescovo della diocesi di Chiclayo in Perù dal 2015 al 2023, pare una personificazione del panamericanismo. Quest’ultimo, inoltre, con buona pace dei tentativi di Trump per contrapporre gli Stati Uniti al resto del continente, sembrerebbe una formula più che valida per consentire a Washington di tornare a legare a sé i Paesi dell’America centromeridionale, sottraendoli alla crescente influenza della Repubblica Popolare Cinese, come attestato dal summit con i leader di 33 Paesi della regione e dei Caraibi svoltosi a Pechino lo scorso 12 maggio, nel corso del quale Xi Jinping ha annunciato l’apertura di una linea di credito dell’ammontare di 10 miliardi di dollari e investimenti per 4,8 miliardi di dollari nel solo Brasile, oltre a pronunciarsi a favore della salvaguardia della sovranità nazionale, con un nemmeno troppo implicito riferimento alle mire di The Donald sul canale di Panama.