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Trump, riforma fiscale all’italiana con mille cavilli da azzeccagarbugli

La riforma fiscale americana voluta dal presidente Trump è tra le più importanti degli ultimi anni ma privilegia più le aziende delle persone fisiche e i ricchi più che la classe media ma soprattutto contiene un numero di eccezioni e cavilli che ricordano il confuso modo di legiferare italiano e non fanno tesoro della lezione del grande Amilcare Puviani

Trump, riforma fiscale all’italiana con mille cavilli da azzeccagarbugli

Le smorfie, i tweet e le frasi inopportune di Trump sono molto più conosciuti della sua politica, soprattutto in Italia. In realtà, col Tax Code Overhaul di dicembre 2017, Trump ha approvato la riforma fiscale più importante degli ultimi anni. Eppure, ad una lettura più attenta della riforma esistono similitudini con le leggi finanziarie italiane. Certo le differenze esistono e sono a prima vista incolmabili. In particolare, due sono gli elementi innovativi del Tax Code Overhaul 

Il primo, il più noto in Italia, è la riduzione dell’aliquota sul reddito di impresa da un valore medio del 25% distribuito su 8 scaglioni di reddito ad una aliquota fissa del 21% per tutti gli scaglioni di reddito. La misura regala un tesoretto alle grandi aziende che prima pagavano aliquote marginali oltre il 35% ma soprattutto semplifica enormemente il sistema. Il principio è quello della flat tax di Milton Friedman. Secondo il nobel dell’economia americano, le tasse sono come le palle dell’albero di Natale. Il primo anno sono tutte rosse; il secondo spuntano quelle dorate; il terzo arrivano quelle argento e in pochi anni, l’albero assomiglia ad Arlecchino. Si può discutere se rosse o dorate, ma Trump ha ridotto le palle di Natale del sistema tributario americano ad un solo colore abbattendone i costi e semplificandone la gestione amministrativa. 

Il secondo elemento della riforma, il più noto negli Stati Uniti, è la riduzione dell’aliquota sui redditi personali. Da un lato, la riforma abbassa le aliquote di tutti gli scaglioni di reddito (ad eccezione del primo). Dall’altro, allarga gli scaglioni di reddito stessi (dal terzo in poi). Dunque le aliquote si abbassano e crescono le soglie delle fasce di reddito che pagano aliquote inferiori. Il beneficio è per tutti anche se è maggiore per i più ricchi. Ma la riforma fa un’altra cosa importante: semplifica le deduzioni applicabili al reddito lordo per calcolare quello imponibile. Mentre prima c’era una deduzione standard minima che veniva poi innalzata scalando interessi, spese mediche documentate, etc. un po’ come in Italia, ora la  deduzione standard è quasi doppia rispetto al 2017, rendendo di fatto inutile documentare le spese deducibili. Di nuovo, si tratta di  una grande riduzione dei costi amministrativi.  

In termini di italianità, la riforma condivide gli obiettivi dichiarati degli ultimi 5 governi italiani, i programmi elettorali di almeno 2 dei nostri maggiori partiti in lizza per le prossime elezioni, nonchè il desiderio della stragrande maggioranza dei cittadini. Eppure Trump è odiato in Italia più di Berlusconi, Renzi e Grillo messi insieme. Alcuni obiettano che questa riforma aumenta il debito, altri che agevola i ricchi più dei poveri, altri che Trump resta comunque un presidente miliardario che aiuta gli amici e gli amici degli amici. Ma è esattamente di questo che gli italiani accusano anche i leader di Forza Italia, Partito Democratico e Movimento Cinque Stelle. Ecco trovata la prima analogia: indipendentemente dai modi, il risultato finale non è diverso da quello della politica italiana. Ma ce ne sono altre.  

In Italia, molti dei paventati benefici fiscali agli individui sono fittizi, irrisori o addirittura inesistenti, mentre esistono benefici effettivi alle imprese che vanno dal credito agevolato ai sussidi agli investimenti, dalla riduzione dei contributi per i neoassunti alla contabilità semplificata. Il Tax Code Reform è coerente con l’approccio “all’italiana”: le riduzioni delle aliquote sul reddito personale scompaiono nel 2020, cioè alla fine del mandato di Trump, dopodiché restano solo alcune agevolazioni per gli scaglioni di reddito più alto. Per le imprese, invece, la riduzione delle aliquote è permanente. Dunque, modesti benefici temporanei per tutti e abbondanti benefici permanenti per ricchi e imprese.  

Poi vi sono i cavilli da azzeccagarbugli, altro piatto forte del menù fiscale italiano. Le 145 pagine della riforma fiscale americana sono fitte di rimandi a codici e leggi precedenti nascondendo leggi “ad personam”, o meglio “ad aziendam”, nel più classico stile di berlusconiana memoria. Per far rientrare i profitti esteri delle grandi aziende americane, le imprese pagheranno un’aliquota una tantum del 15,5% invece di 35%. Il notevolissimo sconto è giustificato dall’atteso aumento degli investimenti negli USA. Imprese come Apple, Amazon, Microsofot, e Google, però, siedono già su montagne di liquidità che non investono: portarne altre dall’estero non dovrebbe aumentare gli investimenti. Ma l’aspetto più italiano della manovra è che il 15.5% si applica sui capitali finanziari, mentre sugli altri capitali si applica l’8%. Per un cavillo legale frutto o di dolo (una distrazione dovuta alla fretta) o di colpa (intenzionalità), molte di queste grandi aziende (Apple in testa), riusciranno a far figurare i loro capitali come non-finanziari e pagare l’8%. Se non è una “carbonara” questa, manca solo il parmigiano! 

C’è un altro ingrediente sconosciuto al grande pubblico della ricetta Trumpista che è tipicamente italiano. La riforma stabilisce che gli scaglioni fiscali verranno aggiornati secondo l’indice di inflazione Chained CPI al posto dell’indice CPI-U. Amilcare Puviani scrisse nel 1903 un manuale per il principe tributario (il Ministro del Tesoro di oggi), Teoria della illusione finanziaria, dove argomentava che le tasse non trasparenti non sono ben percepite dal contribuente e consentono al governo di spendere di più senza che il cittadino protesti o controlli. Questo ne è un tipico esempio. L’indice CPI-U è l’indice dei prezzi al consumo delle città ed essenzialmente traccia il costo di beni e servizi che influenzano un cittadino medio. L’indice Chained CPI, invece, assume che particolari beni e servizi che diventano troppo costosi verranno sostituiti con alternative più economiche.

Ciò implica un’inflazione secondo l’nidice Chained CPI più bassa dell’inflazione secondo l’indice CPI-U. La conseguenza è che mentre un reddito individuale perfettamente indicizzato all’inflazione cresce al tasso più alto rappresentato dall’indice CPI-U, quello degli scaglioni fiscali di reddito salgono al tasso più basso dell’indice Chained CPI. Il fenomeno, conosciuto come resistenza fiscale, comporta che i cittadini pagheranno più tasse nel futuro perché il loro reddito nominale crescerà più velocemente di quello degli scaglioni fiscali. Dunque la riduzione delle tasse non solo è temporanea e avvantaggia più i ricchi dei poveri, ma a regime imporrà un aumento dell’imposizione fiscale attraverso la resistenza fiscale. Potremmo aggiungere, quindi, con vanto, l’illusione fiscale “alla carbonara” ai prodotti italiani esportati all’estero. 

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