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Smart-working, il cambiamento che bussa alla porta

Il “lavoro agile” sembra la versione aggiornata del telelavoro ma non è solo così – Siamo agli albori di un nuovo paradigma dove la presenza fisica del lavoratore in fabbrica è meno stringente – Le esperienze in atto e i loro effetti sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici – Il parere di Marco Bentivogli, segretario della Fim-Cisl, e gli studi del Politecnico di Milano

Smart-working, il cambiamento che bussa alla porta

Il mondo del lavoro sta attraversando una fase di profondo cambiamento, in cui le nuove tecnologie – dalla robotica alle stampati 3D all’Iot (Internet of Things) ai Big data – stanno giocando un ruolo determinante. 

Qualcuno pensa che lo smart working, il “lavoro agile”, sia solo la versione aggiornata del telelavoro. Sotto alcuni aspetti è vero. Ad esempio, il primo prevede, proprio come il secondo (normato dall’accordo interconfederale del 9 giugno 2004 che recepiva l’accordo quadro europeo su telelavoro del 16 luglio 2002), la possibilità di “evadere” dall’ufficio o dal luogo dove normalmente si svolge la prestazione. Eppure lo smart working è anche qualcosa di diverso. Potremmo definirlo una commistione tra uomo, macchina e tecnologia.

Come alcuni cominciano a teorizzare, siamo agli albori di un cambio di paradigma. Mentre declina l’idea novecentesca della produzione fordista, se ne va imponendo un’altra, nella quale il confine parcellizzato della dimensione tempo-lavoro- spazio, grazie alle nuove tecnologie, diviene sempre più sfumato. 

Anche in settori come quello manifatturiero, la presenza fisica del lavoratore per un certo numero di ore al giorno, fin qui un dato considerato inalterabile, grazie all’accessibilità e alla pervasività delle nuove tecnologie si presenta come una condizione meno stringente rispetto al passato. 

Ovviamente, come tutti i cambiamenti anche lo smart working suscita reazioni diverse, per non dire opposte. C’è chi ne sottolinea la carica innovativa e chi vede in esso un attacco a diritti consolidati, un altro passo verso la precarizzazione del lavoro. Emblematico il vespaio che suscitò, qualche mese fa, una dichiarazione del ministro del Lavoro Poletti durante un convegno alla Luiss: “Ho la convinzione che stia cambiando il ruolo del lavoro nella vita delle persone …dovremmo immaginare contratti che non abbiamo come unico rifermento l’ora di lavoro“. Parole che scatenarono la prevedibile quanto irata reazione della Cgil. 

A questa chiamata alle armi si è sottratto il leader dei metalmeccanici della Cisl Marco Bentivogli, che ne imputa l’arretratezza ad una narrazione sul lavoro e sul sindacato ferma al secolo scorso. Solo chi gira al largo delle fabbriche, è il ragionamento, non sa che per molti lavoratori la dimensione spazio temporale, di quella che una volta si chiamava “prestazione lavorativa” è già radicalmente cambiata. Non serve atteggiarsi a futurologi, basta guardarsi attorno, leggere alcuni accordi sindacali che dai servizi si stanno diffondendo sempre più nel manifatturiero, per comprendere che lo smart working è già realtà nelle imprese più innovative e competitive. 

Solo qualche esempio. Alla General Motor Power Train di Torino, grazie ad un accordo tra le parti, è possibile per gli ingegneri impegnati nella progettazione e nei test dei nuovi propulsori diesel la gestione in remoto di alcuni processi produttivi. Alla Endress Hauser di Milano, azienda tedesca di strumenti di precisione, dove si lavora su commessa, dopo una prima sperimentazione durata 4 anni, è stata resa ora strutturale, con un’intesa con le organizzazioni sindacali, una flessibilità attiva dell’organizzazione del tempo di lavoro in favore del lavoratore: quasi un “bancomat”del tempo.

Ma anche in Almaviva, gruppo nazionale dell’Itc, nella multinazionale americana dei semiconduttori Micron, alla la Selex Elas di Genova, alla la Arneg di Padova, leder nei sistemi di refrigerazione, si stanno sperimentando forme di “lavoro agile”. E così in Finmeccanica, colosso nazionale del settore elettronica, difesa e spazio, con più di 30 mila dipendenti solo in Italia, che divenuta one company ha varato d’intesa con i sindacati un nuovo accordo integrativo valido per tutto il gruppo. 

Certo, un dibattito come questo necessita di uno studio serio per capire quali realtà produttive applicano forme di smart working e quali benefici da esse potranno venire in futuro. 

L’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano dal 2011 studia la diffusione del fenomeno tra le aziende italiane. Gli ultimi dati certificano una forte crescita non solo in aziende del settore digitale e dei servizi, vocate da sempre a modalità di lavoro più flessibile, ma anche in realtà tradizionali come il manifatturiero, l’alimentare o il settore bancario . Nel solo 2015 il 17% delle grandi imprese – riporta lo studio del POLIMI – ha già avviato progetti di smart working, introducendo nuovi strumenti e tecnologie digitali, rivisitazione della layout degli spazi fisici di lavoro, nuove policy organizzative e manageriali, a cui si aggiunge un 14% di aziende che sono in fase “esplorativa”, mentre un altro 17% ha avviato iniziative di flessibilità rivolte solo a particolari profili.

Segnano il passo, invece, le piccole e medie imprese. Appena il 5% ha adottato iniziative strutturate. Ciò è forse da attribuirsi anche al basso livello d’innovazione di molte nostre pmi. Da un recente studio presentato dall’UCIMU (l’associazione dei produttori italiani di macchine utensili) , risulta infatti che il parco macchine utensili e sistemi di produzione installato nell’industria metalmeccanica italianaha la più alta età media registrata negli ultmi 40 anni. Un gap che ovviamente frena il ricorso a forme di lavoro agile, per incentivare le quali andrebbero messi in campo strumenti di politica industriale. Fondamentale in tal senso sarebbe un’infrastruttura di ultra-banda accessibile in tutto il territorio nazionale, oltre che una nuova legge Sabatini. 

L’Osservatorio del Polimi ha anche stimato che l’adozione di modelli orientati allo smart-working permetterebbe un risparmio per il Sistema Paese di 37 miliardi di euro grazie all’aumento della produttività del lavoro, della qualità e della riduzione dei costi di gestione; e, dato non secondario, migliorerebbe nel contempo la soddisfazione e il coinvolgimento dei dipendenti. Inoltre la riduzione dei spostamenti dei lavoratori potrebbe teoricamente produrre risparmi economici per i cittadini di circa 4 miliardi di euro (circa 550 e per lavoratore l’anno) e una riduzione di CO2 pari a 1,5 milioni di di tonn/anno.

Da tutto ciò deriva che per il sindacato rimanere a margine di trasformazioni significa guardare il lavoro attraverso lo specchietto retrovisore della storia. Già oggi molti accordi aziendali sono più avanti della contrattazione nazionale , non fosse altro per la capacità di articolare in un quadro di regole condiviso dalle parti le esigenze che emergono tra i lavoratori. 

Anche il governo, del resto, ha sentito la necessità, con l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del disegno legge sul lavoro agile, ora all’esame del Senato, di aggiornare il quadro legislativo benché con una soluzione a “maglie larghe”. 

Come hanno scritto su Avvenire del 19 febbraio scorso Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschidi Adapt, tra i primi a parlare di Industry 4.0 e smart-working in Italia, “parlare di lavoro agile significa iniziare ad ammettere che le vecchie logiche novecentesce dell’orario di lavoro e del posto fisso oggi non sono più rappresentative della realtà. Non contano quindi i luoghi e gli orari, se la tecnologia permette di farne a meno, ma contano i risultati, l’interazione e le competenze. L’agilità non è quindi quella del lavoro, ma quella della persona, del lavoratore.

”Questo non significa liberalizzare da ogni tipo di regolamentazione il lavoro confondendo questa con un modello individualistico , significa piuttosto far evolvere il lavoro verso una dimensione comunitaria dell’impresa dove il buon andamento della stessa è obiettivo comune dell’imprenditore e del lavoratore. Una dimensione che implica un salto culturale, non solo da parte del lavoratore, ma anche da parte dell’impresa, che specie in Italia ha sempre guardato con sospetto la partecipazione del lavoratore nell’impresa che invece, oggi possono rivelarsi oltre che strategiche, vincenti.

Di un approccio di questo tipo c’è traccia anche nelle trattative in corso sul rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, che hanno portato in primo piano il diritto soggettivo alla formazione, uno dei pilastri della proposta elaborata da Fim e Uilm. Un diritto che, secondo il leader dei metalmeccanici Cisl Marco Bentivogli, dobbiamo imparare a considerare di “serie A”, al pari e perfino al di sopra di quello agli aumenti salariali.

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