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Sindona tra demoni ed eroi: una lezione anche per oggi

“Sindona, biografia degli anni Settanta” di Marco Magnani è un libro che merita di essere letto non solo perché illustra come il bancarottiere siciliano abbia potuto costruire un grande impero finanziario fondato su corruzione e delinquenza sotto la protezione di Andreotti ma perché fa emergere la reazione morale di veri “eroi” come Ambrosoli, La Malfa, Baffi, Sarcinelli, Cuccia e Carli e ci avverte che le grandi concentrazioni finanziarie non vanno verso l’efficienza ma vanno contro la democrazia.

“Sindona, Biografia degli anni Settanta” (Einaudi, febbraio 2016, 158 pp.) è un libro nel quale Marco Magnani, economista della Banca d’Italia, racconta alcuni fatti accaduti nella finanza italiana tra il 1960 e il 1986: anni che segnano la parabola di Michele Sindona, dall’acquisto della prima banca (la Privata Finanziaria di Milano) al suicidio nel carcere di Voghera. Per chi, come me, quei fatti li ha in qualche modo visti da vicino, la piacevole penna di Magnani rappresenta un’occasione di ricordo e riflessione; ne consiglio vivamente la lettura.

Su Sindona è stato già scritto moltissimo, ma questo libro rappresenta una messa in ordine ragionato di tutte le “verità”, note e meno note, il più delle volte presentate da altri autori con toni scandalistici e superficialmente accusatori. La mia domanda è: “come è potuto accadere tutto questo?” Vi è un qualche senso di ortodossa religiosità nella narrazione dell’Autore perché il male alla fine viene sconfitto dal bene. Il male è raffigurato in Sindona: Guido Carli ne diede una definizione ineguagliata: “grandezza sinistra ma indubbia”.  Sono stato cliente della Banca Privata Finanziaria, dell’unico sportello in via Verdi, nel cuore della City milanese. Ricordo ancora un ambiente impeccabile, con impiegati orgogliosi, rapidi, al massimo della professionalità, che tenevano un rapporto “signorilmente friendly” con i clienti; con “tutti” i clienti considerando che io in quei tempi ero probabilmente il più povero, essendo al secondo anno di lavoro, con un saldo di conto vicino allo zero e privo di raccomandazioni.

Purtroppo l’uomo di Patti fece leva su quello che Paolo Baffi chiamò “complesso politico-affaristico-giudiziario”; un sistema fondato su corruzioni alimentate con dazioni di denaro ricavato da malversazioni e delinquenze, da operazioni fatte in disprezzo delle leggi causando spesso perdite allo Stato e a risparmiatori ignari e avidi al tempo stesso. Sono parte del quadro, negli ultimi anni di Sindona, le manovre intimidatorie ad opera di suoi sodali, resi forti dall’affiliazione a ordini massonici deviati, a bande mafiose, a gruppi di faccendieri bene introdotti nei servizi segreti e in Vaticano, a golpisti. Il tutto sotto l’ombrello (protettivo o creativo?) di un Giulio Andreotti del quale, rivela Magnani, Enrico Berlinguer confessava che “nel partito [comunista] non avevano ancora capito se fosse un angelo o un demonio”. Di demoni il racconto di Magnani è ovviamente pieno, ivi compreso quel monsignor Marcinkus che starà certamente scontando le sue nefandezze terrene nell’al di là. Ma pure quell’avvocato Guzzi che, senz’altro per dovere d’ufficio, “trattava” gli interessi di Sindona con le controparti (i “buoni” nel film di Magnani) totalmente indisturbato. Ciò nonostante la polizia fosse al corrente “dal vivo” della natura truffaldina dell’oggetto di quelle trattative; i telefoni dei protagonisti erano infatti rigidamente controllati. Una polizia che dipendeva da Andreotti capo del Governo e che quindi era controproducente chiamare per reclamar difesa. Dunque, tutto questo male è potuto accadere perché Sindona creò un vero impero, un sistema bancario e finanziario di grandi dimensioni, per giunta globale, come tale capace di imporre strumenti corruttivi molto forti ed efficaci. E sfruttò, secondo Magnani, le debolezze della politica (indubbie) e quelle dei sistemi di vigilanza in Europa e negli Stati Uniti che Magnani giustifica un po’ troppo bonariamente con le difficoltà di aggiustarsi al rapido mutamento di scenario di quei tempi. Resta da stabilire il confine tra le debolezze, le incompetenze e le connivenze.   

Ma, in ultima analisi, perché Sindona venne sconfitto? Non condivido la conclusione dell’Autore. Io credo che sia certamente servito il “coraggio dei pochi che tentarono, per quanto loro possibile, di arginare lo scadimento dello spirito pubblico di cui il banchiere fu espressione paradigmatica”. Egli non fa una lista; nella mia gli “eroi” non si limitano a Giorgio Ambrosoli che pagò con la vita la sua irremovibilità morale e professionale. Essi comprendono quei personaggi di pari moralità e rettitudine che avrebbero potuto consentire a Sindona di portare a termine le sue truffe, ma hanno resistito tenendo la schiena diritta: Ugo La Malfa, ministro del Tesoro in un governo dominato da Andreotti e dal suo partito, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli paladini di una Banca d’Italia ferma a difesa del paese, Enrico Cuccia, il banchiere di competenza indiscussa che si rifiutò (sotto le minacce concrete alla sua persona e alla sua famiglia) di sostenere i fantasiosi piani di salvataggio propostigli tramite gli avvocati, Guido Carli, governatore della Banca d’Italia che individuò subito la vera natura di Sindona ostacolandolo in tutti i modi. Su Carli non condivido il giudizio problematico di Magnani: il mancato appoggio del Governatore fu anch’esso determinante.

Ritengo però che la causa fondamentale della caduta di Sindona furono le perdite; ovvero le disinvolte speculazioni sui cambi che produssero progressivi ammanchi nelle casse delle banche e delle società del gruppo, prima tra tutte la Generale Immobiliare; “non avevo mai visto niente di simile: pazzi furiosi che si sono messi a comprare miliardi di dollari contro valute europee. Tutte le perdite son venute da lì” (sono parole di Massimo Spada, il banchiere del Vaticano, in una famosa intervista concessa ad Alberto Statera sull’Espresso del 2 gennaio 1975). Se quelle speculazioni, spesso illegali e realizzate con l’uso di capitali di dubbia origine, fossero andate a buon fine è molto probabile che l’impero di Sindona lo avremmo ancora oggi tra i piedi, sostenuto dai timori di “contagio” che consentono la sopravvivenza delle grandi banche too-big-to-fail. Questo perché corruzioni e concussioni sono ancora, purtroppo, all’ordine del giorno e quegli stessi faccendieri della storia sindoniana li vediamo riemergere vivi e vegeti negli stessi luoghi di un tempo. Qui vedo l’ennesima lezione da trarre: le grandi dimensioni e le grandi concentrazioni, anche e soprattutto nella finanza, non spingono verso l’efficienza e vanno contro la democrazia.

Piccolo corollario: quindi, il governo che, consigliato da Bankitalia, riforma spingendo le banche ad ingrandirsi sempre più sta facendo una politica non solo sbagliata (perché non tiene conto delle performance), ma anche pericolosa. Trovo singolare che la Banca d’Italia, che ha percorso la storia di Sindona da protagonista “buono”, non ricordi più la lezione che oggi il suo Magnani ripropone magistralmente.

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